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da Linea di condotta, luglio-ottobre 1975

operai_fiatLa cassa integrazione alla Fiat, più che l'avvio della ristrutturazione, segna il punto di svolta da una fase di sovvertimento delle mappe dei reparti, dell'organiz-zazione interna aziendale — alla riconversione vera e propria. Con la crisi del set-tore dell'auto, si vuole indurre la crisi della struttura politica di classe più forte: l'operaio massa, l'operaio Fiat. L'inoltrarsi della crisi del settore, come forza disgregatrice della rigidità del mercato del lavoro, attacca le strutture di massa, storiche, dell'organizzazione operaia: i Consigli. Ne colpisce l'aspetto strutturale, di espressione dell'organizzazione del lavoro di fabbrica e ne spunta, nella distribuzione del processo produttivo, le forme tradizionali di lotta. Si ha così una soluzione di continuità della mediazione contrattuale tra operai e capitale aprendo una nuova dimensione di lotta politica che solo l'illegalità di massa, come imposizione operaia del proprio diritto al potere, rende realizzabile. Lo sviluppo dell'autoriduzione, dell'appropriazione, l'imposizione diretta dei prezzi politici, sono il terreno su cui si creano forme di potere operaio e proletario.

La prova generale
Il movimento dell'appropriazione
Dopo la conclusione della vertenza aziendale Fiat sull'onda dello sciopero ad oltranza e del blocco di Mirafiori, la classe operaia torinese ha dovuto fare i conti con i primi segni di una fase recessiva destinata a colpire con particolare violenza il ciclo dell'auto. Nel corso della primavera, la politica della grande impresa si salda alle scelte deflattive della Banca d'Italia, con una serie di iniziative in grande stile e d'intensità progressiva; questa combinazione modifica in breve il quadro entro cui si muove la lotta operaia.
A partire dal mese di aprile, con una successione via via più rapida, le piccole e medie fabbriche fornitrici della Fiat, tessili, alimentari, i cantieri edili, sono colpiti dalla Cassa Integrazione e dai licenziamenti. Se l'esito del contratto Fiat aveva verificato interamente i limiti della difesa del salario reale sul terreno della lotta aziendale, gli scioperi generali della primavera-estate mostrano la corda di fronte alla determinazione con cui viene avviato il processo recessivo. Negli scioperi generali si rispecchia la stratificazione di classe indotta dall'inflazione e dall'attacco all'occupazione nei settori più deboli, in mancanza di una iniziativa operaia in grado di riunificare il fronte di lotta. La stessa massiccia presenza di operai della piccola industria, che aveva caratterizzato a lungo le manifestazioni sindacali si va esaurendo: il 9 luglio i fischi a Scheda in Piazza San Carlo saranno soprattutto l'e-spressione dell'esasperazione dei delegati; ad essi fa da contrappunto l'assenza degli operai.
La diminuzione del potere d'acquisto del salario, la distruzione ad opera dell'inflazione dei residui risparmi operai (10.000 miliardi di lire in un anno), creano le condizioni favorevoli per la ripresa dell'iniziativa padronale in fabbrica.
Alla Fiat si assiste al brusco aumento degli straordinari, si moltiplicano i li-cenziamenti per assenteismo e per rappresaglia politica. Ma sono i trasferimenti di massa degli operai da uno stabilimento all'altro il cuore delle grandi manovre di Agnelli. Vale la pena di analizzare questo passaggio perché è la premessa diretta della Cassa Integrazione e perché testimonia la capacità da parte della Fiat di rivoluzionare in profondità l'assetto della fabbrica, con una grande libertà di movimento, che affonda le sue radici nelle scelte generali di politica economica, nel rapporto sociale complessivo fra le classi. Fra la fine di aprile e metà maggio 3-4000 operai sono trasferiti da Rivalta e Mirafiori alla Spa Stura, dove la produzione di veicoli industriali è incrementata sulla base delle commesse governative. Si apre un periodo di mobilità sfrenata della forza-lavoro da uno stabilimento all'altro, da officina ad officina, da squadra a squadra: la mobilità contro l'organizzazione operaia, la mobilità per conquistare il massimo di flessibilità nell'utilizzo della forza lavoro: questo il senso evidente della manovra. I tra-sferimenti sono tutt'altro che unidirezionali e spiegabili in base alla riorganizzazione produttiva: C.I. sono operai trasferiti da Rivalta alle sovraffollate carrozzerie di Mirafiori, altri da Rivalta a Stura e successivamente da Stura a Lingotto nell'arco di qualche settimana.

Negli anni precedenti tutti gli interventi sull'organizzazione del lavoro (dalle macchine a controllo numerico, alle trasferte, ai polmoni fino alle isole) puntavano a fluidificare il processo lavorativo sulla cui rigidità si era conformata la resistenza operaia all'aumento di produttività, il "gruppo omogeneo", la figura del delegato. L'innovazione tecnologica è stata di volta in volta vanificata dalle diverse forme di opposizione operaia al lavoro e dall'organizzazione capillare presente in fabbrica. (D'altronde, bisogna aggiungere che i margini erano già in partenza assai ristretti: il limite era dato da un certo livello di composizione di capitale proprio del ciclo del-l'auto rispetto al quale un forte balzo in avanti nei processi di automatizzazione avrebbe determinato uno scompenso insopportabile). In primavera, la politica aziendale Fiat, rovesciando dentro la fabbrica la prospettiva della recessione, opera una svolta netta: anziché problema d'intervento sull'organizzazione del lavoro, la flessibilità della forza-lavoro diventa interamente un fatto di "politica del personale", dunque di rapporti col sindacato. La mobilità di massa deve garantire alla produzione un'elasticità tale da permettere una programmazione a breve periodo, aderente alla congiuntura del mercato, all'andamento delle esportazioni, alle commesse del governo; centinaia di operai vengono sospesi dalla produzione e utilizzati come massa di manovra all'interno della fabbrica. Questo è davvero il paradigma della forma del comando nelle grandi fabbriche nel cuore della crisi. Ed è evidente come questi provvedimenti spianino la strada al calo della produzione e alla messa in CI.
Eppure, l'FLM dà mano libera ai trasferimenti proprio al fine di allontanare la prospettiva della CI.; questo cedimento sulla rigidità della f-l, che pure era stata una tematica centrale del sindacato dei consigli (rigidità della f-l per gli investimenti al Sud, per l'occupazione, come potere sull'organizzazione del lavoro) toglie ai delegati il terreno su cui si sono formati e sperimentati in questi anni. Le squadre sono smembrate, a volte resta solo il delegato; è sconvolta la mappa politica degli stabilimenti. Si giunge alle ferie con la promessa di Agnelli di mantenere l'orario pieno solo fino al 30 Settembre. Intanto, l'organizzazione operaia, fortemente indebolita dalla mobilità, non è in grado di garantire la continuità della guerra al lavoro. La necessità di salario fa calare l'assenteismo al 5%, mentre i carichi di lavoro si intensificano e i capi riprendono potere. Il dibattito nei consigli Fiat si chiude su se stesso, mitizzando la vertenza autunnale sul punto di contingenza come risolutrice di tutte le difficoltà, proprio mentre si accentua un distacco fra delegati e operai.
I    militanti   operai   dei   gruppi   ritentano,  malgrado un anno di sconfitte, la strada della pressione sul sindacato, delle "mozioni" sulla massimizzazione degli obiettivi contenuti nella piattaforma, incapaci di ritrovare spazi autonomi  d'iniziativa.
Di fronte a questa situazione di classe e ad una prospettiva sempre più prossima di sospensione del lavoro alla Fiat, matura in alcune componenti del sindacato torinese la decisione di verificare al rientro dalle ferie la disponibilità operaia a muoversi sul terreno dell'autoriduzione. Avanzando questa proposta, il sindacato è consapevole che la possibilità di rimettere in piedi il movimento per la vertenza sulla contingenza, che si preannuncia lunga e difficile, passa attraverso il conseguimento di alcune vittorie politiche e l'individuazione di forme di lotta in grado di ricomporre un'unità di classe già messa a dura prova. Pur di ottenere questo risultato, vale la pena di sostenere un duro confronto sia con quella parte del sindacato torinese (UIL e socialisti della CGIL) che si oppone alla proposta dell'autoriduzione, sia con le confederazioni nazionali.
II    test di verifica viene tentato a Rivalta, organizzando il rifiuto di pagare l'aumento dei trasporti sulle linee provenienti dalla zona di Pinerolo. Malgrado il pesante clima in fabbrica, la lotta si estende con una rapidità sorprendente. Gli operai che viaggiano  sullo stesso pullman diventano il nuovo "gruppo omogeneo" che esprime il "Delegato di pullman".
Nel giro di qualche giorno, tramite i "delegati di linea », vengono distribuiti gli abbonamenti sindacali al vecchio prezzo. Questa forma di lotta e d'organizzazione comincia a generalizzarsi su altre linee; l'iniziativa rischia di andare oltre le intenzioni del sindacato ed esso si affretta a riprenderne il controllo con un accordo con la  regione che sancisce un aumento fra il 15 e il 25% delle vecchie tariffe. Questa  lotta,  chiusa prima ancora che sviluppasse l'intero potenziale di massificazione, conferma  comunque al sindacato la praticabilità del terreno dell'autoriduzione.
L'11 Settembre un comunicato della CGIL-CISL-UIL apre ufficialmente la campagna per il pagamento del solo 50% (come acconto in vista di un accordo con l'ENEL) dell'importo della bolletta della luce. Il sindacato si muove con cautela: in una prima fase organizza nelle fabbriche, attraverso i delegati, la raccolta delle firme di adesione: questo sia per sondare il consenso all'iniziativa prima di distri-buire i moduli di c/c, sia per disporre di uno strumento di pressione nei confronti delI'ENEL. Inoltre, la Camera del Lavoro torinese sta subendo forti attacchi dai vertici sindacali e non può esporsi al rischio del fallimento. Distribuiti ai delegati gli stampati che spiegano le modalità della lotta, si inizia la propaganda nelle fabbriche. Nella prima settimana, nella sola Mirafiori, sono già raccolte più di 5.000 firme. L'iniziativa prende piede, sia pure scontando la fragilità del rapporto delegati-operai, la novità della proposta, la difficoltà di penetrare capillarmente l'intero tessuto delle fabbriche torinesi. Un salto in avanti si verifica quando alcune organizzazioni rivoluzionarie temendo che un rinculo del sindacato blocchi la lotta al suo primo stadio come era già avvenuto per i trasporti, stampano autonomamente i moduli del conto corrente postale con le indicazioni sindacali, iniziando una ampia distribuzione ai cancelli delle fabbriche, nei quartieri operai, nelle scuole ed all'università. Questa rottura della procedura sindacale non solo non trova resistenza da parte dei delegati, ma coinvolge organizzativamente numerosi operai, che divengono agenti attivi nella generalizzazione della lotta a tutto il tessuto proletario.
I    treni e i pullman dei pendolari diventano luogo di dibattito e di circolazione della lotta che si allarga presto anche ai paesi della provincia. Il lavoro di distribuzione dei moduli di c/c alle porte di Mirafiori rivela estesi processi di autorganizzazione nella città sull'autoriduzione dei fitti, sull'autogestione del riscaldamento. I comitati di quartiere che fino ad ora sono stati i gusci vuoti del decentramento amministrativo, delle "riforme dal basso", diventano un momento di coagulo di compagni isolati che si fanno carico dei compiti organizzativi della lotta.
In molti casi si enuclea una "sinistra" dei comitati di quartiere che rompe con la pratica da impotenti parlamentini di questi istituti e scopre nella propaganda sulla autoriduzione una possibilità di organizzazione territoriale di classe. Questa "sini-stra" cerca sedi di coordinamento al di fuori dei canali istituzionali e comincia a dibattere lo sbocco politico di questa esperienza di autoriduzione, e cioè il passaggio dalla lotta "garantita" dal sindacato a quella autonoma sui prezzi politici. Si formano nella città e nei paesi alcuni comitati di lotta per l'autoriduzione con una composizione disomogenea, che va dai militanti dei gruppi a compagni senza identità organizzativa, ad alcune avanguardie operaie, soprattutto delle piccole fabbriche. Il PCI ha una posizione differenziata: in alcuni comuni rossi della cintura fa propria la tematica dell'autoriduzione sia pure sottolineando con insistenza il suo carattere provvisorio di forma di pressione. Altrove, dopo una dura opposizione, subisce passivamente restando alla coda del movimento. I delegati operai, tranne sporadici tentativi di propaganda nei quartieri, garantiscono il lancio della lotta all'interno della fabbrica, ma non affrontano il problema del suo radicamento e della sua articolazione sul territorio.
Mentre l'autoriduzione assume caratteri di massa (al 1° dicembre più di 130.000 le bollette autoridotte, con una crescita esponenziale nelle ultime settimane) i delegati di fabbrica sono ancora sostanzialmente estranei ai processi di organizzazione indotti da questa lotta.
Questo ritardo è dovuto alle difficoltà di riqualificare uno strato di avanguardie formatesi nella lotta all'organizzazione del lavoro, sull'uso dello sciopero in tutte le sue forme come arma politica fondamentale.
I delegati dei consigli di fabbrica, mentre hanno diretto tutti i passaggi della lotta aziendale, non hanno memoria di esperienze di direzione politica su altri strati di classe. Questo spiega come le strutture territoriali del sindacato, i Consigli di zona o i nascenti Comitati Unitari di Zona (destinati a gettare un ponte fra i consigli e i comitati di quartiere) sono ancora oggi strutture intercategoriali senza rapporti effettivi con gli organismi nati sul territorio sulla pratica della autoriduzione.
L'occupazione delle case in Via delle Cacce e nel quartiere Falcherà, che dal 27 settembre al 6 novembre ha raggiunto dimensioni di massa, se ha trovato un'attenzione ed una solidarietà nuova nei consigli di fabbrica, non ha però determinato una rete stabile di rapporti organizzativi con le avanguardie operaie. Ciò ha permesso al PCI e al sindacato un recupero istituzionale della lotta sulla casa che non solo ne stravolge il senso politico, ma soprattutto ne rompe la continuità organizzativa. Il nodo centrale per il movimento dell'autoriduzione resta dunque il coinvolgimento diretto del personale politico di fabbrica. Oggi un discorso sui consigli di fabbrica deve perdere quel carattere elastico e quindi eternamente indefinito per cui di volta in volta si pone l'accento sul loro carattere di struttura operaia o di articolazione del sindacato.
Anzitutto: oggi non è un elemento pregiudiziale, preliminare, per lo sviluppo della lotta di massa nella crisi, la formazione di strutture alternative di direzione operaia. Ciò significherebbe non considerare come il ruolo dei delegati viene profondamen-te modificato dall'intensità della crisi. I delegati, come struttura ricalcata sulla organizzazione del lavoro, impegnata a difendere la "rigidità" operaia in fabbrica rappresentano una figura di organizzazione destinata a deperire rapidamente. La crisi rende indifendibile il terreno su cui sono collocati. Ma è esattamente a partire da questo dato che si rimescolano le carte, gli schieramenti, i termini del dibattito politico. Alcuni delegati gettano la spugna, schiacciati dalla verifica della propria impotenza: ormai in fabbrica si contano molte squadre prive di delegato. Una parte del Consiglio, però, comincia ad assumersi gradualmente responsabilità di dire-zione politica sul terreno di scontro determinato dalla crisi in cui lo sciopero non può essere la sola né la principale forma di lotta.
Affermare che i consigli sono svuotati è solo una mezza verità, e dunque una sostanziale falsità. È vero, infatti, che la struttura dei delegati perde colpi su colpi nella contrattazione delle condizioni di lavoro; è vero che coordina assai poco e male la situazione delle diverse officine ; ma il dato decisivo è che nel consiglio il confronto "fra le due linee", dall'alternativa tra controllo sull'organizzazione del lavoro e rifiuto del lavoro, si sposta sulla tematica dello sbocco politico, delle prospettive della lotta operaia nella crisi. Da questo punto di vista comincia a darsi una polarizzazione netta fra la posizione FIOM sulla "svolta democratica" e una componente del Consiglio, tutt'altro che omogenea, che rifiuta la prospettiva di un approdo istituzionale delle lotte e s'impegna per rilanciare, su diversi piani, il movi-mento su contenuti d'attacco.
Ecco: oggi i consigli Fiat funzionano come una sorta di Comitato Politico, al cui interno ha luogo una lotta politica feroce fra le avanguardie che fa decantare ed emergere una nuova gerarchia di dirigenti operai che cominciano a misurarsi sulle lotte di autoriduzione, sulle sue potenzialità, sul suo esito.
Il movimento dell'autoriduzione sta inducendo un distacco di massa dal riformismo paragonabile per ampiezza e profondità alle lotte studentesche del '68 o alle lotte autonome precontrattuali del '68-69. Ma questa volta la crepa si allarga, sia pure in modo graduale e contraddittorio, direttamente allo strato operaio decisi-vo per l'organizzazione: ai consigli di fabbrica e ai quadri operai delle sezioni territoriali del PCI.
La verifica più significativa di questo processo è data a Torino dal Comitato di lotta delle Vallette, composto interamente di militanti operai: dall'autoriduzione delle bollette è passato all'autoriduzione del riscaldamento, dandosi una struttura organizzativa stabile mediante i delegati di scala e di caseggiato. Il Comitato delle Vallette sta affrontando tutti i problemi che l'assenza della copertura sindacale ha via via posto; è maturata, dentro la concreta costruzione della lotta, una rottura con il Comitato di quartiere e con il PCI che lo gestisce, e numerosi quadri operai del partito sono rimasti nel Comitato autonomo.
Mentre il movimento dell'autoriduzione fa le sue prime prove, il quadro politico subisce una netta sterzata con la messa in Cassa Integrazione di altri 70.000 operai Fiat, che presuppone la sostanziale unità dei centri reali del comando capitalistico (Confindustria, Banca d'Italia, Partecipazioni Statali, ecc). Non si tratta certo di un'unità empirica, "dal basso", ma di una riunificazione del ceto capitalistico come governo reale in grado di legare congiuntura e tendenza, recessione e ristrutturazione. Da questo punto in poi, le tappe della crisi non vengono più contrattate preventivamente col sindacato e i partiti riformisti; l'attacco all'occupazione nelle grandi fabbriche colpisce al cuore la struttura del mercato del lavoro industriale, ridimensionando bruscamente il potere contrattuale ed il peso istituzionale del sindacato.
La C.I. alla Fiat ha avuto un duplice effetto immediato. 1) Tale misura ha anticipato e svuotato la vertenza nazionale sulla contingenza, puntando a fare degli operai Fiat l'anello debole del fronte di lotta. Il Sindacato ha dovuto rinunciare a condurre la vertenza nazionale come una effettiva vertenza contrattuale, articolata fabbrica  per  fabbrica.
Il fatto che fino ad ora la lotta sia proceduta quasi esclusivamente con la proclamazione di una serie di scioperi generali è il segno della debolezza operaia sul terreno di fabbrica, della radicale difficoltà del movimento a rispondere in maniera articolata all'attacco del padrone. 2) La C.I. rende problematica una estensione lineare delle lotte di autoriduzione in corso (trasporti, bollette della luce) e un'aggressione di nuovi contenuti salariali, a partire dai livelli d'organizzazione dati in fabbrica. Sarebbe "economicismo" ipotizzare un rapporto meccanico fra aumento del bisogno e capacità di soddisfarlo con la lotta d'appropriazione. In realtà la C.I. intacca i livelli d'organizzazione, incide sul rapporto delegati-squadre, mette in luce i limiti del Consiglio di Fabbrica come struttura dirigente della lotta sui prezzi.
Insomma: un'ipotesi di ripresa del movimento attorno alla difesa diretta del salario reale e sulla riattivazione di comportamenti autonomi di lotta al lavoro sotto il cappello del "vertenzone" viene sostanzialmente bruciata dal provvedimento di Agnelli. La C.I. segna una rottura drastica nell'esperienza degli operai. Lo sciopero di massa, l'ipoteca operaia sulla produzione, la guerra all'organizzazione del lavoro, si rivelano armi spuntate, capaci tutt'al più di determinare sacche di resistenza nei confronti dell'iniziativa padronale. A Torino, prima che altrove, avviene una radicale e drammatica soluzione di continuità rispetto alle forme di lotta operaia conosciute negli anni passati. La crisi dello sciopero pone qui, prima che altrove, l'esperienza della autoriduzione — e più in generale, la crescita dell'illegalità di massa e della pratica di appropriazione — in alternativa alla vertenza nazionale sulla contingenza, alle forme ed ai tempi della lotta rivendicativa. Paradossal-mente, è stata la messa in C.I. degli operai FIAT a caricare l'autoriduzione di un significato radicale che va ben oltre quello di una nuova forma di lotta in difesa del salario reale. Il rifiuto di pagare gli aumenti perde ogni carattere di "Cassa di Soccorso per scioperanti"; ora il punto vero non è più garantire la continuità e la forza della lotta di fabbrica sul salario monetario, "risparmiando" quattrini sulle tariffe pubbliche. Si tratta di ben altro.
Quando è il padrone stesso ad imporre il calo della produzione innescando un processo che conduce alla disoccupazione di massa; quando la crisi comincia a rivoluzionare in profondità la struttura del mercato del lavoro, il terreno della produzione diretta appare un'articolazione subordinata del rapporto sociale fra le classi. La C.I. rompe quella continuità del rapporto di lavoro entro cui avviene la contrattazione delle condizioni di vita degli operai; dunque, determina una situa-zione in cui esse possono essere garantite solo al di fuori della trattativa istituzionale; e questo oggi fonda a Torino il passaggio dell'autoriduzione delle bollette alla imposizione diretta dei "prezzi politici" come rottura organizzata della legalità ed esercizio concreto di potere operaio. Mentre si tocca con mano l'obsolescenza dello sciopero, la lotta d'autoriduzione indica un terreno su cui l'organizzazione operaia comincia a riarticolarsi e a conseguire dei risultati positivi sul piano degli interessi materiali.
Vediamo meglio. Quando, a partire dal 7 ottobre, la settimana lavorativa si riduce a 24 ore, il disorientamento in fabbrica è tale che sfuma ben presto la possibilità di una reazione autonoma a caldo. Il sindacato, dopo aver accettato per mesi supinamente l'iniziativa padronale in fabbrica pur di scongiurare la minaccia dell'orario ridotto, nelle ultime settimane ha nascosto la testa nella sabbia, negando l'evidenza e non preparando preventivamente alcuna risposta. A fatto compiuto, due sono le posizioni che emergono: la FIM denuncia il carattere sostanzialmente artificioso della richiesta Fiat di un calo massiccio della produzione, sottolineando l'aspetto manovrato, "politico", della C.I.. La FIOM, invece, riconosce il dato strutturale della crisi del settore ed insiste per trovare una soluzione alternativa alla C.I. in termini di ponti, eventualmente con l'impiego della quarta settimana di ferie (in fabbrica peraltro viene respinta "a viva voce" ogni ipotesi di cedimento sulle conquiste contrattuali in materia di ferie e di festività infrasettimanali).
Fra gli operai è subito chiaro come lo sciopero abbia ben poca incidenza in una situazione in cui Agnelli ha deciso di produrre 200.000 vetture in meno. I margini d'iniziativa in fabbrica sono assai ridotti, tutt'al più si tratta di bloccare la produzione là dove ancora tira a tutto spiano, alla Spa Stura e alla linea della 131 a Mirafiori. Per il resto, lo sciopero è al massimo una difficile testimonianza di unità di classe (vale la pena di ricordare come il Sida, a partire da questo dato oggettivo, stia cercando di ritrovare spazio alla Fiat con una propaganda assai abile).
Analizziamo in breve l'andamento degli scioperi in questi due mesi di C.I. Anzitutto; il mercoledì è diventato per forza di cose il giorno "ufficiale" dello sciopero ("la domenica la messa, il mercoledì lo sciopero", dicono gli operai). Dopo quattro giorni di assenza dalla fabbrica, il lunedì e il martedì danno il tempo appena sufficiente per organizzare la fermata. La prima risposta viene data mercoledì 9 ottobre: otto ore di sciopero alla Mirafiori e a Lingotto, quattro ore a fine turno nelle altre sezioni. Lo sciopero riesce anche se, per la prima volta in 5 anni, centinaia di operai si ammassano alle porte di Mirafiori davanti ai picchetti. Il sindacato decide di non tirare la corda e la settimana successiva indice lo sciopero per il punto di contingenza di giovedì, convocando un'assemblea aperta a Mirafiori mentre gli operai Fiat sono in C.I.
Il piazzale interno è riempito da operai delle piccole fabbriche e da migliaia di studenti: la presenza degli operai Fiat è pressoché nulla. In seguito, l'adesione agli scioperi resterà su livelli discreti se la fermata dura 8 ore o si svolge a fine turno. Quando però il sindacato prova la carta dello sciopero interno, la partecipazione cala bruscamente, i cortei stentano a formarsi, molte linee continuano a lavorare; fino a che si giunge al clamoroso insuccesso del 27 novembre, quando a Mirafiori e Rivalta la percentuale degli scioperanti non supera il 10%. La Spa Stura costituisce un'eccezione rilevante giacché gli operai, potendo usufruire dell'oggettiva forza contrattuale derivante dalla permanenza di altri livelli di produzione, prolungano gli scioperi e danno vita a forti cortei interni. Nelle altre sezioni, invece, si sconta fino in fondo la debolezza nei confronti dell'iniziativa del padrone, che continua a riorganizzare la produzione chiudendo lavorazioni e spostando operai, mentre prosegue lo stillicidio delle ammonizioni e dei licenziamenti.
In questa fase della crisi i processi di rottura della composizione di classe data cominciano a manifestarsi anzitutto con una redistribuzione di potere contrattuale fra le diverse sezioni di classe. Mentre la chimica di base e la siderurgia mantengono ancora stabiliti i livelli di occupazione, la disoccupazione di massa, che comincia ad investire il settore dei beni di consumo, indebolisce radicalmente la forza contrattuale degli operai del ciclo dell'auto.
La classe operaia del settore dei beni di consumo è resa mobile e precaria da processi di ridimensionamento e di ristrutturazione ; il padrone punta a ridurre l'operaio-massa a figura proletaria dal reddito e dal lavoro incerti; già comincia a configurarsi un nuovo soggetto proletario fatto oggetto di una politica selezionata di salario sociale, solcato da stratificazioni profonde. La Fiat ha deciso di anticipare sulla busta paga la C.I. speciale, aprendo così la strada a una dichiarazione di "crisi del settore"; in questo modo viene garantito agli operai il 94% del salario per tre giorni di lavoro alla settimana, mentre nelle piccole fabbriche la C.I. ordinaria ne garantisce solo il 66%, sempre che non si proceda direttamente coi licenziamenti. Il punto è questo: le misure di salario sociale sono selezionate nel senso che la garanzia di salario è data agli strati di classe più combattivi, con i livelli organizzativi più saldi. Nella erogazione di salario garantito da parte dello Stato viene riconosciuta una specie di gerarchia in base al peso politico e si tenta un'operazione di separazione dell'avanguardia di massa dal resto del proletariato.
A queste stratificazioni si sommano quelle derivanti dall'enorme rigonfiamento del mercato del lavoro marginale: gli operai Fiat che cercano un secondo lavoro per i due giorni di C.I., i disoccupati, i giovani premono su un'area di lavoro nero che peraltro tende a restringersi.
Rottura della composizione di classe e nuovo soggetto proletariato: ciò che emerge con chiarezza a Torino è l'irreversibilità di questi processi. In nessun modo si può assumere come terreno di scontro la difesa della base produttiva di questa composizione di classe; il ridimensionamento del settore dei beni di consumo, la ristrutturazione e i licenziamenti di massa sono l'orizzonte dato che già determina nuovi comportamenti di classe.
Il centro del programma politico è la ricostruzione della forza operaia al di fuori della camicia di forza del ciclo capitalistico, su altre basi rispetto a una situazione favorevole di piena occupazione. La "fase di transizione" fra l'innesco di un processo di scomposizione di classe e la riorganizzazione capitalistica del mercato del lavoro offre la possibilità di rompere la legalità contrattuale entro cui lo stato ri-conduce il conflitto di classe: lo sviluppo dell'autoriduzione, dell'appropriazione, l'imposizione diretta dei prezzi politici, sono il terreno su cui si creano forme di potere proletario che sottraggono legittimità alla mediazione istituzionale. Lo sviluppo dell'illegalità di massa deve aderire come un guanto alle modificazioni in corso nella struttura di classe,   rovesciandole contro il meccanismo di crisi non solo in termini di mera resistenza economica, quanto soprattutto fondando la possibilità di aggredire le articolazioni dello Stato, di far uscire alla scoperta il potere proletario.
Il "salario garantito" nell'accezione padronale determina anzitutto una stra-tificazione  di  comportamenti  politici. I settori più deboli ed esposti del proletariato torinese  già stanno movendo i primi, passi oltre la riduzione delle bollette della luce radicalizzando la lotta sociale. Invece si verifica un ritardo, una sfasatura di tempi per gli operai delle grandi fabbriche. A questo proposito però si può avanzare una previsione: il "salario garantito" tanto nella sua forma di C.I. speciale quanto in quella di forte indennità di disoccupazione, può diventare la base di un rilancio dell'iniziativa operaia in fabbrica. Non è affatto scontato l'uso capitalistico di queste forme di reddito elargito al di fuori del rapporto di lavoro: è possibile pensare che alla Fiat, per esempio,  ciò costituisca un elemento di maggior "rigidità" operaia anzi ché la sanzione di una separazione "corporativa" dal resto del tessuto di classe. Il salario garantito come strumento di controllo istituzionale su alcuni settori di classe può tradursi in ossigeno per la ripresa della lotta.
Il passaggio decisivo che può imprimere all'illegalità di massa un carattere offensivo, di  rottura, di potere — è data appunto dal saldarsi dell'esperienza di lotta autonoma contro il lavoro degli operai Fiat con i nuovi comportamenti della figura proletaria socializzata dalla crisi.
Fra dicembre e gennaio, l'accordo FIAT-sindacati sulla gestione bilaterale della Cassa Integrazione, l'accordo sulle tariffe elettriche concluso dalle Confederazioni mentre il movimento dell'autoriduzione è in piena crescita; la chiusura della vertenza nazionale sul punto di contingenza ed il "salario garantito" stabilizzano e precisano le coordinate della gestione della crisi a medio termine fino alla scadenza del rinnovo dei contratti.
Il sindacato, dopo la prima fase della C.I. FIAT, ha imboccato decisamente la strada della cogestione della crisi, puntando a riqualificare il proprio ruolo istituzionale con la trattativa dei tempi e delle modalità della ristrutturazione, senza poter offrire agli operai significative contropartite materiali. Il tutto è poi condito con un discorso sulla presunta incapacità del capitale italiano ad operare una profonda riconversione produttiva per adeguarsi alla nuova divisione internazionale del lavoro e sulla conseguente necessità dell'intervento fattivo del Movimento Operaio, affinché i processi di ristrutturazione siano portati effettivamente a fondo.
Mentre il sindacato rinnova l'ideologia del "capitalismo straccione", la FIAT chiude il cerchio dell'operazione iniziata in primavera con i trasferimenti di massa: ora la flessibilità della forza-lavoro in fabbrica è codificata in termini contrattuali. Dopo il ponte di Natale, già a febbraio, ricominciano la C.I., la mobilità interna, il taglio dei tempi sulle lavorazioni  che  tirano.
Il carattere centrale e preventivo della trattativa FIAT-sindacati sottrae ulteriormente possibilità d'iniziativa ai Consigli di fabbrica. La vertenza sulla contingenza ha fornito una prefigurazione attendibile, come conduzione sindacale ed esito rivendicativo, del rinnovo dei contratti: una sequela di scioperi generali, sottrazione del terreno della lotta articolata, trattativa complessiva sulla normativa della ristrutturazione. Da parte capitalistica i contratti vengono preparati, allargando massicciamente l'area della Cassa Integrazione (150.000 operai a febbraio - un terzo della classe operaia torinese) e scaricando i processi di disoccupazione sul tessuto di piccola industria delle fornitrici; tutto ciò mentre si intensifica la pressione fiscale e inflazionistica volta a garantire un trasferimento gigantesco di ricchezze dai redditi di lavoro ai capitali d'investimento tramite la mediazione dello Stato.
Il grande problema dei padroni italiani è che con questi strumenti possono indebolire la forza sociale e il potere contrattuale degli operai, ma non possono mettere mano alla riconversione produttiva fino a quando non sono date le condizioni necessarie per aggredire direttamente l'occupazione nelle grandi fabbriche. In altre parole, l'elemento più fragile nella gestione capitalistica di questa fase della crisi è proprio l'introduzione dell'istituto del "salario garantito" o meglio della Cassa Integrazione a salario quasi integro. In Italia i padroni introducono — sono costretti ad introdurre per graduare ed articolare l'attacco — il salario ga-rantito prima ancora che nelle grandi fabbriche si sia dato un arretramento effettivo e definitivo della forza politica operaia. Questo dato tende a tradursi immediatamente in una ripresa di comportamenti endemici di lotta al lavoro, di rifiuto di erogare maggior fatica, di resistenza alla ristrutturazione. Alla FIAT, una volta stabilizzatosi il regime di C.I., si è avuta nei primi mesi dell'anno una circolazione di lotte sulle condizioni di lavoro: a Mirafiori, alle Presse contro le ammonizioni, sulla linea di montaggio della 131 contro l'aumento delle saturazioni; a Rivalta, alla pomiciatura contro la riduzione dei cambi, in carrozzatura contro il taglio dei tempi, a Stura, ripetutamente, sui tempi e sui carichi di lavoro.
È facile prevedere che questi episodi di lotta si moltiplicheranno nei prossimi mesi, anche se difficilmente troveranno uno sbocco unificante.
L'uso operaio del "salario garantito" contro il lavoro nelle grandi fabbriche può far diventare un boomerang il tentativo padronale di accerchiamento dei poli di classe: in termini di costi economici e di riproduzione d'instabilità politica è il pericolo mag-giore cui va incontro la linea Agnelli-Moro. Si tratta però, ed è bene sottolinearlo, di processi di lotta assolutamente ritmati dall'iniziativa capitalistica. La permanenza, della lotta al lavoro nel cuore della crisi è un sintomo prezioso della "maturità del comunismo", ma appunto, un sintomo "oggettivo", un termometro, certo non il terreno congrua alla fondazione di processi organizzativi che assumano la dimensione di potere dello scontro di classe in atto.
Ci troviamo di fronte a un paradosso da rilevare lucidamente: la ripresa della lotta autonoma sulle condizioni di lavoro intralcia l'iniziativa capitalistica ed attesta la radicalità strategica della guerra operaia al lavoro, ma non si pone come terreno di crescita dell'organizzazione di classe. Non è possibile raccogliere e sintetizzare il patrimonio politico dell'autonomia sul terreno su cui si è sviluppata l'autonomia fino ad ora, proprio perché la crisi si è incaricata di sconvolgerlo dalle fondamenta.
La riqualificazione delle avanguardie operaie non può avvenire sulla permanenza dei comportamenti di lotta propri degli anni scorsi: o si dà il riconoscimento della necessità di un salto, di una rottura rispetto all'esperienza precedente, oppure la stessa radicalizzazione delle forme di lotta in fabbrica si presenta come una testi-monianza d'impotenza rispetto al carattere irreversibile della ristrutturazione produttiva e alla mancanza di spazi per la lotta rivendicativa nella crisi.
Assumere come programma politico, sia pure sostenuto dalle forme di lotta più dure, la difesa di questa composizione di classe e della sua base produttiva, significa arroccarsi attorno alla difesa di questo modello di sfruttamento, il che è velleitario e reazionario allo stesso tempo.
L'applicazione delle avanguardie di classe sul terreno offensivo dei "prezzi politici", introdotto dall'esperienza dell'autoriduzione delle bollette, non si può dare linearmente, come slargamento del potere operaio in fabbrica. I "prezzi politici", proprio nella misura in cui cominciano a tradurre l'autonomia di classe in progetto di potere, sono l'unico terreno su cui le avanguardie delle grandi fabbriche possono rideterminare una egemonia, un comando sull'intero tessuto di classe.
La difficoltà effettiva alla Fiat è data dallo scarto evidente fra i successi conseguiti dal padrone, nell'arco di alcuni mesi, nella distruzione di livelli organizzativi operai in fabbrica e lo sviluppo ancora frammentato e insufficiente del movimento dei "prezzi  politici".
Sia chiaro: dopo la chiusura della vertenza sulle tariffe elettriche e l'abbandono da parte del sindacato della tematica della autoriduzione, si sono compiuti molti passi in avanti e di grande rilievo politico, che tardano però ancora a configurarsi come dispiegata iniziativa d'attacco, capace di ricomporre la rete delle avanguardie. Di fronte al carattere di svendita dell'accordo (basti dire, senza scendere nei dettagli, che gli operai dovrebbero restituire all'Enel il 50% autoridotto della bolletta prece-dente) i Comitati per l'autoriduzione delle Vallette, di Nichelino, di Mirafiori Sud, del Centro storico ed altri danno vita ad un Coordinamento, al cui interno si forma una struttura permanente di direzione, l'Esecutivo dei Comitati, e promuovono la ripresa dell'auto riduzione delle bollette della luce e l'allargamento della lotta ad altri obbiettivi.
La mancanza della copertura istituzionale del sindacato induce un salto di qualità nella pratica della autoriduzione: la minore estensione consentita dall'iniziativa autonoma richiede un maggior spessore d'organizzazione: le assemblee di caseggiato, la nomina dei delegati di scala, la discussione preventiva del problema dell'autodifesa, tutto ciò qualifica in modo rilevante il processo organizzativo. Il Coordinamento sollecita la formazione dei Comitati per l'autoriduzione in fabbrica a Mirafiori, Rivalta e Stura: i militanti operai all'interno della fabbrica raccolgono le firme, distribuiscono i moduli di conto corrente, indirizzano gli operai alle sedi dei vari comitati di quartiere, organizzano assemblee nei refettori, sostenendo lo scontro aperto col sindacato.
Mentre si sviluppa autonomamente l'autoriduzione della bolletta successiva all'accordo, sopravviene un'altra raffica di aumenti: l'acqua, di cui è quintuplicata la tariffa, i trasporti urbani che raddoppiano il biglietto, il gas, il telefono. Il Coordinamento prepara delle giornate di lotta cittadine sui trasporti e sul telefono (invito a bloccare la teleselezione il 6 marzo, giorno delle trattative Donat Cattin-sindacati) e lancia l'autoriduzione delle tariffe dell'acqua e del gas. Il Coordinamento da una parte ha la necessità di rapportarsi con indicazioni generali all'intero movimento della autoriduzione, dall'altra di accelerare e rafforzare processi di crescita organizzativa molecolare dei singoli comitati.
All'ordine del giorno della discussione nei Comitati c'è il problema del passaggio politico ed organizzativo dalla gestione delle autoriduzioni sulle tariffe pubbliche all'intervento diretto sui prezzi dei generi di prima necessità. Nel quartiere Mirafiori Sud si sono svolte assemblee di donne proletarie per organizzare il boi-cottaggio sistematico dei negozi più cari. Il punto vero è costruire nei quartieri dei veri e propri "processi" ai prezzi dei generi di prima necessità ripetutamente aumentati negli ultimi anni o mesi: per arrivare al picchettaggio di massa dei grandi magazzini e all'imposizione effettiva dei prezzi politici.
Venuta meno la copertura sindacale alle lotte, è necessario alzare il tiro per riempire di un interesse materiale consistente la crescita dell'illegalità di massa. Questo è il passaggio decisivo, il solo che può stabilizzare nei Comitati una rete operaia significativa e dispiegare tutto il contenuto di potere del movimento dei "prezzi politici".