Scioperi in Fca, lotte nella logistica, notti in piedi e altro ancora
Il Primo Maggio si avvicina e, come l'anno scorso, utilizziamo questa data per fare un piccolo bilancio sul lavoro svolto e ragionare sulle prospettive.
Su Chicago86 abbiamo pubblicato alcuni documenti significativi di delegati e lavoratori che mettono in discussione l'attuale modello corporativo, intendendo l'azione sindacale come "scontro per affermare gli interessi degli operai contro gli interessi dei padroni" (Comunicato di delegati Piaggio, Continental, Same). La molla che ha fatto scattare queste prese di posizione è stato il comportamento della Fiom verso i delegati di Melfi e Termoli che hanno organizzato scioperi in Fca (ex Fiat) contro ritmi e turni di lavoro massacranti.
Prese di posizione significative, dicevamo, ma che rimanendo all'interno del perimetro della - pur necessaria - solidarietà tra fabbriche non romperanno mai le asfissianti gabbie di categoria e di mestiere, gabbie che in ultima analisi impediscono l'unità dei lavoratori.
Un altro filone che abbiamo seguito con attenzione è quello della logistica. Come testimonia la sezione del sito "News #logistica", nel settore i blocchi, i picchetti e gli scioperi continuano senza sosta, nonostante la repressione. Queste mobilitazioni dimostrano che i mezzi per il coordinamento dei lavoratori ci sono tutti, e che l'organizzazione immediata territoriale riesce ad andare oltre la forma puramente sindacale. In alcune città d'Italia le lotte dei facchini si sono intrecciate con quelle di disoccupati, precari e occupanti di casa, e in più di un'occasione hanno prodotto la formazione spontanea di "unions", dando vita ad esperienze di mutuo soccorso che potrebbero estendersi a rete.
Affermiamo con certezza che l'epoca delle trattative è finita. Ogni lotta economica che raggiunge una certa massa critica tende ad assumere un carattere politico, non nel senso della politica politicante, bensì della critica dello stato di cose presente. Pensiamo alle manifestazioni in Brasile contro l'aumento della tariffa del trasporto oppure ai recenti scioperi dei "Fast Food Workers" negli Usa.
Sappiamo che lo Stato può riconoscere qualsiasi forza sociale, anche reprimendola, per ricondurla entro i confini del compromesso; ma sappiamo anche che non potrà mai riconoscere le comunità-contro che emergono senza rivendicare nulla e mettono in pratica nuovi rapporti sociali.
In questi giorni abbiamo discusso delle lotte dei lavoratori e degli studenti francesi contro la "Loi Travail", la legge sul lavoro che trae ispirazione dall'italiano "Jobs Act".
Al termine dello sciopero generale che il 31 marzo ha bloccato la Francia, in diverse centinaia hanno occupato Place de la République a Parigi, rispondendo all'appello di un collettivo di sinistra per una "Nuit Debout" (notte in piedi). Ispirata alle primavere arabe e alle acampadas spagnole, l'iniziativa ha coinvolto decine di città e il tam-tam sui social network ha velocemente superato i confini nazionali. Madrid, Bruxelles, Berlino hanno ritwittato. Ma è presto per lasciarsi andare a facili entusiasmi.
"Questo movimento non è nato né morirà a Parigi. Dalle primavere arabe ai movimenti del 15M, da Piazza Tahrir al Parco di Gezi, Place de la République e i numerosi altri luoghi occupati stasera in Francia, sono il riflesso della stessa rabbia, delle stesse speranze e della stessa convinzione: la necessità di una nuova società dove democrazia, dignità e libertà non siano parole vuote." (Appello della "Nuit Debout", place de la République - Paris, 8 aprile 2016)
Forse non è un caso che nell'appello non vi sia alcun riferimento ad Occupy Wall Street. Il movimento francese chiede una nuova società, ma con tutte le categorie politiche di quella vecchia. Una regressione rispetto al livello raggiunto dal movimento americano nel 2011: "L'unica soluzione è la rivoluzione mondiale" (conclusione dello statement nella home page del sito Occupy Wall Street).
Non c'è da stupirsi, dato che sulla Francia pesa come un macigno l'eredità interclassista del Sessantotto. I movimenti europei pagano caro il prezzo di decenni di stratificazioni politiche e filosofiche e fanno fatica a scrollarsi di dosso la vecchia merda.
Al di là degli esperimenti locali più o meno riusciti, il modello Occupy tende a generalizzarsi. Ogni volta che si presenta sulla scena un movimento di massa, a New York come a Istanbul, ecco la necessità di occupare il centro della città, conquistare uno spazio comune, organizzare assemblee generali, gruppi di lavoro, una mensa e un "media center" per comunicare con gli altri.
Comunicare cosa?
Che un altro mondo è possibile, che il 99% vuole spazzare via l'1%. L'importante è non fermarsi a metà, criticare continuamente sé stessi, mettere in discussione l'ideologia dominante, sperimentare forme organizzative aperte, "leaderless" (senza leader) e "peer to peer" (da pari a pari).
Certo, cambiare paradigma non è facile, la guerra è globale e con essa lo stato d'emergenza permanente, il controllo alle frontiere, la repressione contro i senza riserve che scappano dalla fame. Ma proprio per questo, perché un ciclo si è concluso, non si tratta di rivendicare diritti civili, di far valere un movimento politico, di promuovere referendum o petizioni, di imporsi quali interlocutori per una legge o riforma più giusta.
È in ballo qualcosa di più profondo: la formazione di un ambiente radicalmente diverso da quello esistente. E chi ne sente la necessità non può far altro che agire di conseguenza.
Ch86