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Da "Collegamenti" n. 7 - giugno '75

La pressione per ridurre l'orario di lavoro è uno degli assi portanti della lotta di classe da più di un secolo.

La prima azione collettiva del proletariato di un'intera nazione fu la lotta degli operai inglesi contro il tentativo capitalista di estendere la durata del lavoro oltre le possibilità fisiche degli operai e di far lavorare in fabbrica i ragazzi. Su questo terreno iniziativa operaia e ristrutturazione capitalista si sono intrecciate strettamente in una lotta accanita.

L'impossibilità per i capitalisti di aumentare il plus-valore assoluto (derivante dall'estensione quantitativa della giornata di lavoro) li ha spinti ad aumentare quello relativo (sviluppando la produttività del lavoro). E per ottenere ciò il capitale è stato costretto ad accelerare il processo di meccanizzazione prima e di automazione poi della produzione.

L'introduzione della catena di montaggio è strettamente legata alla giornata di 8 ore, l'operaio non poteva ormai reggere per un periodo superiore alla tensione nervosa e all'usura fisica derivante dalla parcellizzazione del lavoro, dall'aumento dei ritmi, dalla nocività.

Lo sviluppo della metropoli con l'aumento conseguente dei tempi di trasporto da una parte e la difficoltà ad adattarsi alla disciplina di fabbrica dall'altra, sono i fattori che hanno posto al centro dell'interesse operaio ulteriori riduzioni di orario. Nella situazione italiana questa riduzione è stata perseguita attraverso due diverse forme di lotta:

- una essenzialmente gestita dal sindacato per le 40 ore, ed anche di meno per alcune categorie, al posto delle 44 precedenti;

- una semispontanea che si è verificata fabbrica per fabbrica con forme, modi e tempi diversi premendo essenzialmente attraverso l'uso dell'assenteismo legato ad una maggior forza contrattuale e alla nuova struttura mutualistica.

Visto che l'assenteismo è stato ed è, nonostante la crisi, la forma di azione operaia autonoma più diffusa sul problema dell'orario, è opportuno soffermarvisi brevemente:

- da una parte è espressione principalmente dei giovani operai delle grosse concentrazioni, che sviluppano insofferenze e combattività contro l'organizzazione del lavoro. E' quindi molto più difficile da praticare, ad esempio, nelle piccole fabbriche dove il paternalismo padronale e l'ideologia produttivista sono più forti;

- dall'altra anche se è una forma di azione operaia importante va detto che produce un livello organizzativo contraddittorio. Gli operai per assentarsi debbono costruire delle strutture informali di organizzazione ma assentatisi si trovano isolati sul territorio e in pratica vivono una situazione individualizzata. E' infatti normale ad esempio che l'assenteismo sia legato al doppio lavoro (ad es. all'Alfa) o che porti all'isolamento rispetto al reparto di operai che lo praticano in maniera disorganizzata dando spazio alla repressione padronale.

Con ciò non si vuole fare alcun discorso "produttivistico", dato che è evidente che il rifiuto operaio della disciplina di fabbrica non si esprime secondo schemi prefabbricati, ma segue i rapporti di forza che la classe esprime a livello locale e, non di rado, individuale, ma collocare nei suoi limiti l'assenteismo.

Questa forma di azione non va infatti confusa col rifiuto del lavoro salariato, rifiuto che non può che esprimersi da dentro la fabbrica, in maniera collettiva e da parte di tutto il proletariato.

Aprire oggi un dibattito sulla riduzione dell'orario di lavoro è importante proprio nella misura in cui da parte capitalista si tenda a restaurare la disciplina produttiva, a favorire il doppio lavoro e a non concedere nulla sul salario e sull'orario; ma appunto per l'importanza del tema va battuta ogni impostazione equivoca e semplicistica della questione, ed è per questo che reputiamo opportuno esprimere alcune valutazioni sulla proposta fata da alcuni compagni sull'argomento.

Sotto il titolo "35 x 40" i Collettivi Politici Operai (Rosso) di Milano hanno proposto all'Autonomia Organizzata una "iniziativa politica generale" * sulla riduzione dell'orario di lavoro a 35 ore (pagate 40) e di assumere questo tema come centrale nell'attività dei prossimi mesi. I motivi per cui i CPO propongono questo obiettivo sono due:

- "innanzitutto perché questo obiettivo è giusto. Esso corrisponde agli interessi immediati degli operai come forza-lavoro, nella misura in cui risponde adeguatamente all'uso capitalistico della crisi, tutto teso all'aumento della produttività del lavoro (cioè alla diminuzione ed al controllo della sua mobilità e del suo costo)...".

- "In secondo luogo... perché... è anche carico di un forte significato antiriformista".

In primo luogo va detto che gli operai non si pongono degli obiettivi perché "giusti", ma perché hanno la forza di praticarli, al limite di imporli alle strutture riformiste. Pertanto va dimostrato non che un obiettivo è corretto o utile agli operai, moltissimi obiettivi godono di questa caratteristica dal più piccolo aumento salariale alla rivoluzione sociale, ma in che modo sia possibile portarla a compimento. In secondo luogo nessuno obiettivo intermedio è di per sé anti riformista dato che la sua realizzazione è interna alla struttura capitalista.

Una lotta operaia diventa antiriformista solo nella misura in cui rompe effettivamente il controllo dei sindacati e dei partiti "operai". In concreto questo obiettivo è semplicemente un momento di aggregazione della sinistra operaia delle grandi fabbriche metalmeccaniche colpite dalla ristrutturazione e dall'attacco padronale di questi ultimi tempi. Come tale si tratta di una proposta importante ed utile al dibattito e all'azione di classe anche nella misura in cui si contrappone la logica produttivistica del sindacato. Quando invece vengono proposte come obiettivo generale della classe le 35 ore (pagate quaranta) sono, rispetto ai fini proposti, troppo o troppo poco.

Troppo perché, considerando le attuali forze che l'Autonomia Operaia organizzata può mettere in campo, le difficoltà che ha il movimento operaio nel suo complesso, la disgregazione dei comportamenti operai derivata dalla contemporaneità di obiettivi diversi che vanno dalla difesa del posto di lavoro, alla lotta contro la stagionalità, si tratta di un obiettivo che si può solo "propagandare" in termini ideologici completamente slegati dalle reali lotte in corso e alle quali gli organismi autonomi partecipano.

Troppo poco perché di fronte a un attacco capitalista così complessivo colgono un solo aspetto, estremamente difficile da generalizzare. Cosa significa infatti 35 ore pagate 40?, che sono pagate all'attuale prezzo delle 40 ore? Ma allora provvederà lo straordinario, necessario alla sopravvivenza, a far rientrare l'obiettivo stesso. Che si riassorbirà la manodopera disoccupata? Ma di fronte all'attuale ristrutturazione la risposta proletaria dovrà essere estremamente più articolata per ottenere dei risultati concreti in sostanza allora quello che di reale significherebbe questo obiettivo sarebbe la famosa parola d'ordine "lavorare meno per vivere meglio". Ma a questo punto è perfettamente inutile forzarla dentro una richiesta centrale, ma si tratta di affrontare le mille forme di lotta che mirano a questo obiettivo.

L'idea di costituire poi dei "Comitati per le 35 ore" rientra appunto in questa visione propagandistica. Questi comitati che dovrebbero aggregare operai e disoccupati, che dovrebbero sorgere in fabbrica e quartiere, intorno ai quali andrebbero organizzate "case dei giovani, consultori per donne ecc." sembrano essere un nuovo esempio del vecchio sogno di organizzare il movimento per parole d'ordine.

E' infatti tutto da definire il possibile rapporto fra "comitati per le 35 ore" e "comitati di reparto". E' chiaro che con i primi si torna alla logica dell'obiettivo generale mentre i secondi dovevano essere, almeno come progetto, un momento dell'articolazione dell'intervento a livello di ogni attività produttiva. C'è il rischio che i compiti di reparto a questo punto anziché essere nuclei costitutivi dell'autonomia organizzata diventino cassa di risonanza di organismi che si pretendono superiori. Un'altra confusione che si rischia di fare è quella fra comitato di reparto con qualsiasi struttura che operi nel reparto (commissione femminile, gruppo di giovani ecc.) dato che il primo deve essere cellula di un'organizzazione di classe, mentre i secondi non possono che funzionare che come momenti specifici di particolari settori di classe.

A una logica propagandistica vanno ricondotte le valutazioni sul "compromesso storico" e sulla ristrutturazione: "L'urgenza di muoversi subito sul terreno dell'organizzazione e della lotta intorno a questo obiettivo è data da una semplice riflessione: la fase politica di riorganizzazione e di ristrutturazione capitalista del potere sta marciando a tappe forzate verso una conclusione produttiva ed istituzionale.

Tra elezioni regionali e contratti di fine d'anno il capitale ha deciso di farla finita; la ristrutturazione troverà nel compromesso storico la sua forma politica adeguata, adeguata in termini di compressione delle lotte, il loro controllo interno, di repressione di ogni alternativa operaia e rivoluzionaria. Già ora il processo di compressione delle lotte rischia di divenire irreversibile. E' per questo che si tratta di cominciare subito puntando, finché ancora c'è lo spazio, sull'aggregazione più vasta e sulla più vasta ed immediata difendibilità delle iniziative. Certo non dobbiamo farci illusioni: di fronte ad un movimento che attacca così decisamente uno dei nodi della ristrutturazione e della sua forma politica (compromesso storico) il padrone e le forze ormai associate al potere (sindacati e partiti del movimento operaio) metteranno in atto tutto il loro potenziale di contrattacco e di frantumazione. Questo ormai fa parte dell'esperienza delle masse: il problema non è quello di volere evitare in ogni caso di rispondere al terrorismo del padrone, ma quello di rispondergli con tutti gli strumenti possibili dentro ad un sostegno di massa".

In questo brano è racchiusa tutta una visione catastrofica della situazione che la classe operaia si trova di fronte, sembra che solo oggi sindacati e PCI siano diventati contro-rivoluzionari ed una tesi del genere, anche se è comprensibile in compagni che da poco più di un anno escono dalla sinistra sindacale, è completamente falsa. Il riformismo è sempre stato una delle armi del capitalismo, il PCI ed i sindacati non mirano al compromesso storico perché abbandonano gli interessi di classe, ma perché oggi il compromesso storico è l'unico modo che hanno per intervenire al potere e gli interessi di classe non sono mai stati da loro difesi. Certamente i riformisti fanno svolte tattiche, pigliano posizioni più o meno dure ecc., ma non è qui il punto. Un riformismo duro è esterno agli interessi di classe quanto quello conciliante, nella misura in cui la discriminante non è la violenza ma la pratica che si porta avanti e il fine che si persegue. Nella misura in cui il movimento operaio ufficiale vuole inquadrare il proletariato nella difesa di una forma di sfruttamento (il capitalismo progressista o al limite di stato) il modo con cui si combatte l'altra forma (capitalismo arretrato e privato) è un fattore tattico. L'esperienza degli ultimi anni conferma perfettamente questo fatto, ad esempio nel luglio '60 PCI e sindacati non ebbero alcuna difficoltà a mobilitare la piazza, in maniera che qualche imbecille definisce insurrezionale, come sostegno alla azione parlamentare. Non va negato che il riformismo risente di contraddizioni derivanti dalla pressione della base operaia, soprattutto a livello sindacale, ma le sue direttive di fondo sono tracciate dalla sua stessa struttura organizzativa e dai rapporti sociali che sviluppa e quindi la tattica rivoluzionaria non può né deve sopravvalutarle a scapito dei comportamenti reali di classe che debbono essere il nostro punto di riferimento principale.

La sopravvalutazione della situazione di crisi si salda immediatamente a quella del ruolo che l'autonomia organizzata può avere, sembra quasi che spetti ai rivoluzionari di salvare la classe dalla situazione in cui è impantanata. Questa è una visione completamente distorta della lotta di classe: non sono i rivoluzionari che inventano le forme di lotta, ma la classe nel suo complesso; e non è una lotta "giusta" che decide i termini della situazione.

Ma le implicazioni organizzative più profonde sono trattate nella parte finale del testo:

"Certo, è vero che oggi gli operai hanno paradossalmente paura della loro forza, sanno dove comincia, ne conoscono l'enorme potenziale e l'esplosività, non sanno dove essa può finire in mancanza di una generale organizzazione politica della classe, e quindi in parte la temono.

Ma la lotta sulle 35 ore non è un salto nel buio: è invece una sfida al riformismo, una indicazione di tendenza basata sui bisogni più essenziali della classe operaia, una radicale divisione di campo fra chi lotta contro lo sfruttamento e chi lo vuole organizzare meglio".

Si potrebbe fare dell'ironia sui corsi di lettura del pensiero che hanno fatto i compagni per conoscere l'opinione della classe operaia, ma il problema non è questo. Sostenere che gli operai conoscono la propria forza ma non dove essa può portarli, o è dire cosa ovvia se si intende semplicemente che in una società capitalistica gli operai non hanno una chiara visione e a volte nessuna visione di un organizzazione comunista della produzione, o, e noi crediamo che questo sia il caso, un preciso tentativo di giustificare il ruolo di un gruppo dirigente. Questa forza operaia non sarebbe che una forza bruta che va diretta da qualcuno, la famosa "organizzazione politica generale".

Ci sembra che i compagni giochino un po' con le parole: un leninista ortodosso lo chiamerebbe "partito rivoluzionario" senza fare tanti giri di parole. L'unica differenza che c'è fra questa organizzazione e i partiti classici è che, mentre i secondi si proponevano come forza dirigente chiaramente strutturata, la prima vorrebbe giocare un po' il ruolo di scintilla che incendia la prateria, anche se evidentemente la cosa non sempre funziona, forse perché la scintilla viene accesa in giornate uggiose. Lo spontaneismo di marca maoista non fa che riproporre anno dopo anno, con monotona insistenza, le sue tesi, trovando di volta in volta "l'obbiettivo rivoluzionario" (salario garantito, appropriazione, 35 x 40 ecc.). Evidentemente i compagni dei CPO intendono incaponirsi sulla via che ha condotto Lotta Continua al più aperto neoriformismo. E quanto questo pericolo sia fondato lo dimostra il fatto che questi coordinamenti "per obiettivi" non fanno che attrarre, come mosche sul miele, tutti i gruppi minori dell'estrema sinistra, come il Coordinamento sull'Autoriduzione ha visto la presenza degli stalinisti del FARP e consoci, quello sulle 35 ore rischia di vederci marciare coi Trotzkisti della IV Internazionale. Ancora una volta l'estremismo di un obiettivo si lega all'opportunismo pratico che è evidente dato che tutti sanno quale è l'ipotesi della IV, cioè suscitare una propria correntina di sinistra sindacale nel più vecchio stile bolscevico.

Siamo sicuri che i compagni dei CPO hanno le finalità più lodevoli nel fare le loro proposte e pertanto la critica che ne abbiamo fatto non vuole limitare la discussione sui problemi reali che questa proposta stessa pone; semplicemente questa discussione deve avvenire sul terreno dell'autonomia, cioè nel confronto tra lotte reali, tra interventi condotti effettivamente, tra esperienze, anche diverse, di militanza. Bisogna insomma decidersi ad abbandonare l'illusione di risolvere i problemi a colpi di slogan e di "comitati". La giusta indicazione della riduzione dell'orario di lavoro, dell'auto-riduzione della produzione, della difesa del salario e del suo sganciamento dalla produttività, va portata avanti dentro le lotte, individuando di volta in volta gli obiettivi praticabili e costruendo quindi un confronto utile e una collaborazione non saltuaria.

* Nota le parti tra virgolette sono citate dal documento dei CPO.