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La classe operaia italiana ha ragione di gloriarsi di uno sciopero come quello che, per più di un mese, ha visto schierata su un fronte unitario di lotta l'intera categoria dei marittimi, e che ha suscitato intorno a sé, perfino in Australia e nel Nord America, grandiosi episodi di attiva solidarietà internazionale. Centoventi navi bloccate in tutti i porti del mondo; una lotta inflessibile condotta malgrado le insidie del reclutamento di personale avventizio e, soprattutto, malgrado l'isolamento in cui (portuali a parte) le organizzazioni sindacali hanno tenuto gli scioperanti; un interesse di classe che batte clamorosamente in breccia il cosiddetto spirito di nazionalità e l'onor di bandiera - tanto cari agli armatori e al loro governo: tutto questo è sufficiente a scrivere pagine di gloria negli annali della marineria proletaria, non solo italiana. I marittimi hanno lanciato agli operai di tutte le categorie un monito che non deve andare perduto.

Esso dimostra, anzitutto, che le catene con cui i proletari sono legati alla mostruosa macchina produttiva borghese non cessano di produrre lo scoppio della collera degli oppressi, anche quando vengono esternamente indorate. È vero, sono passati (ma solo in virtù di una lunga lotta) i tempi duri delle cosiddette "quattro e quattro", cioè della disposizione per cui ogni "guardia" faceva 4 ore di servizio e 4 di "riposo" - oggi, a bordo, le guardie sono tre, e fanno "quattro e otto"; è vero che il vitto e l'alloggio sono migliorati, e il valore assoluto delle paghe è cresciuto. Ma, anche a prescindere dal fatto che queste "migliorie" presentano gravi disparità da nave a nave e da compagnia a compagnia e sono sempre lontane dal soddisfare le esigenze di un mestiere fra i più duri, la realtà più profonda, meno chiaramente visibile e, forse, non afferrata neppure da una parte dei marittimi, la realtà che sostanzia la grandiosa agitazione è il ritmo disumano al quale la forza-lavoro è sempre più sottoposta. La spietata concorrenza mondiale in vista della riduzione dei costi ha infatti portato a ridurre al minimo insuperabile le soste nei porti delle navi sia da carico che da passeggeri: appena 24-48 ore, cioè il tempo strettamente necessario per le provviste di macchina di coperta e di cambusa. Si pensi: una moderna petroliera di oltre 50.000 tonnellate è capace di scaricare tutto il petrolio in sole 12 ore!

Un primo insegnamento scaturisce dall'agitazione dei marittimi, oltre a quello della vanità delle "riforme" come mezzo di soluzione dei contrasti sociali. Lo sciopero non ha avuto bisogno del "capo", della figura "popolare" in cui si ha fiducia indiscussa. È crollato così miseramente un vecchio mito caro agli stessi marittimi e dannoso quant'altri mai alla loro causa: quello della necessità di un Giulietti al quale ancor oggi essi sogliono attribuire ogni conquista della causa marinara.

Infatti, lo sciopero, sgorgato come sempre da condizioni obbiettive, è stato dichiarato unitariamente l'8 giugno, sotto la pressione delle maestranze da un comitato di oscuri dirigenti dei vari sindacati: FILM (CGIL), SINDAN-FILM (CISL), FEGEMARE-FIM (UIL) e perfino CISNAL. Dunque, nelle peggiori condizioni organizzative rispetto ai tempi in cui c'era la sola FILM "di Giulietti" (aderente alla CGIL), la gente di mare ha lottato con una compattezza veramente eroica sfidando l'intransigenza padronale e governativa, gli spauracchi tirati fuori per l'occasione, come la denuncia alla magistratura per ammutinamento, lo sbarco amministrativo, la requisizione di alcune navi, il ricorso a mano d'opera avventizia disoccupata, e le menzogne come quelle delle alte paghe (!!) dei marittimi, il preteso carattere di parte dello sciopero, eccetera.

Secondo insegnamento: in circostanze in cui la lotta di classe si spinge molto avanti e la rottura della "normalità" supera certi limiti, alle centrali sindacali opportuniste è vietata dalla stessa lotta ogni manovra scoperta tesa a fermare le masse in movimento.

Le organizzazioni sindacali hanno bensì continuato a piatire l'intervento mediatore del governo e personalmente di Segni (il quale, d'altra parte, al momento buono ha sempre degli "impegni" utili per menare il can per l'aia e gli scioperanti per il naso), hanno bensì manovrato per "convincere" gli armatori ad iniziare le trattative durante lo sciopero, hanno bensì chiuso un occhio sulla ripresa del lavoro mediante personale avventizio su linee locali e di importanza limitata; ma, circa l'invito a sospendere lo sciopero, lo stesso segretario della CGIL, Romagnoli ha dovuto proclamare chiaro e tondo alla camera:

"Il governo non può credere che un simile invito — anche se venisse fatto dalle organizzazioni sindacali — verrebbe accolto dai lavoratori. Essi lo considererebbero un tradimento".

Sono le masse che forzano la mano ai dirigenti: questi, obtorto collo, le seguono.

Ma, se non possono fare in modo troppo scoperto il loro gioco, gli organizzatori non sono stati perciò meno opportunisti. In particolare la CGIL, che ancora osa autodefinirsi sindacato di classe, ha scoperto ancora una volta il suo vero volto di organismo collaborazionista. Di fronte al pericolo di veder fallire lo sciopero di una categoria così vasta e battagliera, invece di far essa stessa da motore e prendere l'iniziativa di coinvolgere nella lotta gli altri lavoratori, la CGIL ha dimostrato d'essere la prima a temere ogni "solidarietà attiva", dando così nuovo ossigeno all'intransigenza padronale. La quale - si noti bene - è tanto forte perché, fra i negrieri armatori privati tipo Costa, Lauro e Fassio, c'è l'armatore Stato che, attraverso il gruppo Finmare dell'IRI, gestisce le maggiori società di navigazione.

Uno sciopero come quello dei marittimi poneva naturalmente e necessariamente il problema dello sciopero generale. Altre categorie - i cavatori, i metalmeccanici, i siderurgici - erano e sono in lotta; il teatro delle agitazioni sociali si è esteso dall'Italia all'Inghilterra: di fronte a questa realtà grandiosa, che cosa significano gli ordini di sciopero alla spicciolata, una categoria dopo l'altra, i portuali qui, i meccanici là (per i cavatori, si è addirittura pervenuti ad un risibile accordo, dopo una lotta non meno lunga ed eroica)? I marittimi hanno dato vita in Italia e all'estero ad episodi di autentica battaglia diretta e di violenza di classe; i meccanici, nei pochi giorni di sciopero ufficialmente proclamati, si sono battuti spavaldamente nelle piazze contro i caroselli della polizia democratica: non era questa la dimostrazione di una temperatura sociale altissima, di una volontà travolgente di battersi? Non era, insomma, la classica situazione della lotta a viso aperto e senza quartiere, dello sciopero generale illimitato?

Non si è voluto farlo perché si vuol conciliare il diavolo e l'acqua santa, gli interessi della nazione e della sua economia e quelli di una classe operaia decisa e lottare anche senza il permesso dei capoccioni. Non si è voluto farlo perché ci si è aggiogati al carro della pacifica "riforma" della società costituita. Si sono praticamente condannati all'isolamento i marittimi di fronte ad una classe padronale cui lo Stato risarcisce i danni e che sa di poter contare, alla lunga, sul naturale esaurimento di una lotta circoscritta. La solidarietà proletaria non è fatta di platoniche manifestazioni isolate e sottoposte al controllo dell'orologio: è, soprattutto in casi come questo, la discesa in lotta aperta, contemporanea e unitaria, di tutti i lavoratori.

I marittimi - indipendentemente dalle finali "conquiste", necessariamente misere - hanno dato agli operai di tutte le categorie un esempio luminoso; le organizzazioni legate ai partiti del compromesso patriottardo hanno fornito una nuova prova, della loro natura controrivoluzionaria. Se la duplice lezione entrerà nel sangue dei proletari gementi sotto il tallone di ferro della borghesia sarà l'inizio di inarrestabile, travolgente ripresa!

Il programma comunista n°13 del 1959