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giugno76-fuori-dell-acquaIl discorso di questo numero di «Lavoro Zero» affronta le condizioni dello scontro di classe nella fase di chiusura dei contratti. Il problema preliminare è di fare chiarezza, dicendo che è primario il livello di classe, è secondaria la vicenda elettorale. Quali sono state le condizioni dei padroni per la chiusura dei contratti? Innanzitutto ha pesato la direttiva imperialistica di estrarre più lavoro a buon mercato dalla classe operaia in Italia. Questo era e rimane l'obiettivo. La sostanza delle manovre internazionali sulla lira è appunto questa. Restano confermate le linee-guida annunciate nell'ottobre del 1974 dal cancelliere tedesco Schmidt, kommissario-kapo dell'imperialismo USA per l'Europa: «Noi non dobbiamo salvare l'Italia, ma darle solo quel tanto di aiuto che le consenta di stare con la testa fuori dell'acqua, non sulla spiaggia. L'industria italiana deve rafforzarsi senza rincorrere il miraggio della diversificazione produttiva, perché in Europa dobbiamo realizzare una precisa divisione del lavoro».

Queste linee-guida restano valide ed anzi l'imperialismo cerca adesso di renderle più pesanti. La «precisa divisione del lavoro» di Schmidt quale parte assegna alla classe operaia in Italia? Vale forse la pena di ripeterlo: assegna una dipendenza pressoché totale dal capitale multinazionale estero per i settori dell'energia, delle materie prime, del macchinario di punta e soprattutto dell'alimentazione. Le condizioni di scambio non sono pesanti per il capitale italiano, sono pesanti per la classe operaia in Italia. In termini di lavoro sociale medio un dollaro deve comprare più lavoro che in passato in Italia, deve far correre di più l'operaio di questo «paese amico»; ed altrettanto è vero per il marco tedesco e per il franco svizzero o francese. Per un dollaro di importazioni la forza-lavoro in Italia dovrà lavorare di più che nel 1975. La svalutazione della lira rispetto alle altre monete viene così a colpire direttamente i salari perché ad essere importate sono soprattutto le merci del paniere operaio.

Ma l'aumento micidiale dei prezzi del paniere operaio non può che rendere instabile una situazione che i padroni hanno assoluto bisogno di rendere stabile.

Ai padroni spetta il compito di costringere la classe operaia ad una maggiore laboriosità, al PCI quello dell'incentivazione morale. Ammoniva il responsabile della politica economica del PCI: «... la dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto non può differire da quella che si verifica negli altri paesi concorrenti (E. Peggio al convegno del CESPE del marzo scorso). Una dichiarazione che cadeva a pera mentre infuriava l'attacco multinazionale ai salari italiani! In realtà si tratta di chiarire a quali costrizioni è sottoposta oggi la classe operaia in Italia quando si vuole che lavori «in concorrenza» con quella degli «altri paesi». I paesi presi come riferimento sono quelli dell'occidente.

Questi hanno un potere di ricatto enorme sul salario in Italia: sul salario, ma non sul capitale italico, al quale vengono lasciati i bricioloni della speculazione. Dal punto di vista del capitale in Italia non c'è proprio bisogno di un capitalismo pulito ma di una maggiore disgregazione politica della forza-lavoro: una forza-lavoro da sottoporre ad un regime di inflazione più severo, in modo da generare più laboriosità, più disponibilità al lavoro, più flessibilità lavorativa. Dunque, non soltanto disponibilità politica al primo lavoro, ma anche ricerca del secondo o terzo lavoro, del lavoro a tempo parziale, del lavoro a domicilio, del lavoro stagionale, della forte turnazione, in generale del lavoro disperso. Per questo ci sarebbe bisogno di una forza-lavoro divisa, soggetta al ricatto della disoccupazione senza salario, priva di sbocchi di emigrazione definitiva, costretta ad imboccare i canali fangosi della protezione politica clientelare e mafiosa dei partiti per strappare un reddito. In questa direzione tentano di muoversi il capitale italico ed il capitale multinazionale in Italia. Se già in passato i padroni riconoscevano nella piccola e media impresa italica il nerbo della loro resistenza all'attacco operaio, adesso la dispersione fisica e politica della forza-lavoro dovrebbe diventare un programma di governo.

Chi crede che a questo disegno si possa contrapporre una proposta di capitalismo pulito, di un capitalismo senza brutture? La Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici, per esempio, quando affronta il problema dell'assenteismo con la Confindustria: «... affrontare il problema dell'assenteismo abusivo, sul piano generale e a livello di azienda, vuol dire accertare le cause reali di questo fenomeno nelle realtà specifiche. E queste cause si ritroveranno per la grande maggioranza dei casi nella diffusione delle forme di secondo lavoro, di lavoro nero, di lavoro a domicilio». Ed ecco i rimedi: « Abbiamo in ogni caso individuato e proposto alcune soluzioni che potrebbero avere un effetto indiretto anche sul fenomeno dell'assenteismo. Ci riferiamo alle misure volte al controllo dei fenomeni di decentramento produttivo e di contenimento di quei processi che assumono un carattere chiaramente patologico». La sostanza del discorso sta altrove: «... la FLM ritiene di dover assumere una posizione molto netta nei confronti delle forme di assenteismo cronico e abusivo, durante l'attività produttiva e durante gli scioperi: non possiamo considerare questi fenomeni alla stregua di una forma sia pure discutibile di lotta» (B. Trentin, Relazione al Consiglio dell'FLM).

Intanto all'assenteismo ci pensano le misure punitive contenute nei nuovi contratti, l'iniziativa poliziesca delle mutue di ricostruire al calcolatore le assenze degli operai negli anni, i licenziamenti, la disoccupazione. In altre parole, la disciplina subito, per le riforme si vedrà in un futuro ragionevole! È sempre Trentin che dichiara all'«International Herald Tribune» (23 aprile '76): «La soluzione é un governo di austerità nazionale che riformi i servizi pubblici restituendone alcuni all'industria privata e sfoltisca l'eccesso di occupazione burocratica, che applichi il razionamento della benzina e della carne, che tagli i salari e gli stipendi più alti».

I riformisti avanzano oggi la proposta di un controllo sugli investimenti da parte di tutte le forze del cosiddetto «arco costituzionale»: dalla DC fino al PCI passando attraverso i vertici sindacali. Il discorso sul salario non è più di moda, evidentemente; né tanto meno quello sull'inflazione e sulle buste-paga che vengono erose ogni giorno dai prezzi. Quando ci si riempie la bocca di bei discorsi sulla piena occupazione, in realtà si vuol dire altro. Si vuol dire che i prossimi anni dovranno essere anni di drastico controllo della forza-lavoro attraverso un dosaggio al contagocce del salario. Il lavoro a domicilio, il lavoro doppio, il lavoro stagionale, la turnazione, lo straordinario sono la difesa immediata del livello di vita da parte della collettività operaia. Dietro questa laboriosità c'è una carica enorme di richiesta di salario; questa si esprime con gli scioperi, l'assenteismo, l'allentamento della disciplina di fabbrica, e tali forme di lotta a loro volta vengono rafforzate dai redditi secondari che il datore del primo lavoro non riesce a controllare. Dietro l'attacco padronal-sindacale al doppio lavoro c'è già la repressione di questa richiesta di reddito, c'è il rifiuto di organizzarla in forma collettiva, salvo poi buttare la croce sugli operai, accusati di cercare la «soluzione individuale» ai loro problemi di sopravvivenza e di trasformare addirittura l'occasione elettorale in una battaglia per un livello migliore di vita. Ma quando in un paese come l'Italia siamo più vicini agli 8 milioni che ai 5 milioni di individui coinvolti a qualsiasi titolo nel lavoro frazionato, quando l'aumento della produzione industriale del marzo scorso è del 14,4 per cento rispetto allo stesso mese del 1975, allora il problema dell'organizzazione autonoma della classe operaia anche nel lavoro e nel consumo produttivo fuori delle 8 ore della fabbrica sindacalizzata diventa urgente per mantenere instabile la situazione politica a livello generale.

È necessario affrontare questo tema, allargare il dibattito e l'iniziativa nonostante il chiasso post elettorale adesso anche i riformisti italiani fanno la spola tra corridoi ed ambasciate a piatire ed elemosinare il benestare del capitale occidentale al «compromesso storico». Dobbiamo dunque domandarci se il fulcro della proposta e dell'azione dei riformisti è oggi l'ingresso del PCI nella «nuova maggioranza di governo» oppure se questo ingresso è solo la facciata di un processo rivolto prima di tutto a modificare la forza di controllo del capitale sulla classe operaia in Italia. È in realtà il PCI che vuole assumersi come compito prioritario quello di assicurare la laboriosità generale in Italia. Non gli basta assumersi il dovere dell'incentivazione morale, della predicazione dell'astinenza da «socialismo di guerra». Vuole praticare tutto questo senza rendersi conto che le basi oggettive dell'operazione stanno stringendosi invece di allargarsi.

I pesanti condizionamenti internazionali nei confronti della classe operaia in Italia tendono a peggiorare la situazione di classe; a questi condizionamenti la politica del lavoro del PCI non pone sostanziali limitazioni oggi né tanto meno nel prossimo futuro. Di qui la perdita di credibilità del PCI come sensale, di qui l'avvio della lenta provocazione in cui il capitale internazionale sta tirando la sinistra italiana per farla governare nella crisi, per renderla compartecipe del controllo della forza-lavoro in una situazione economica e politica che il capitale internazionale stesso vuole deteriorata.

giugno76-acqua-2Contro questa tendenza la classe operaia in Italia sta trovando i suoi strumenti e le sue forme di lotta. Occorre promuoverli, catalizzarli, mostrare nei fatti che sono pratiche di un movimento collettivo dove tutte le esigenze di classe trovano espressione, pena la mutilazione e il riflusso del movimento. Oggi più che mai deve risaltare la forza che il Marx degli operai attribuiva ai comunisti, che sono tali in quanto « sostengono sempre l'interesse del movimento nella sua totalità». In una fase come questa, quando il capitalismo in Italia tende a creare lavoro politicamente disperso, ad associare i «suoi» operai e le «sue» operaie in modo nuovo, e cioè a scomporli e a dividerli politicamente perché oggi sono «troppo uniti», opporre lotte di unificazione operaia anche dentro il lavoro disperso acquista il peso di una grande prova di forza politica, non importa quanto limitati possano essere i primi risultati di una tale iniziativa. Nella lotta al lavoro disperso l'iniziativa di classe rompe parecchie uova nel paniere del nuovo « patto di lavoro». Niente paura. Meglio fare chiarezza subito. I conti vanno presentati prima che i padroni si siedano a tavola.

Lavoro Zero, numero 2/3 giugno 1976

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