Il sindacato come funzione di comando del rapporto produttività/salari
Il "compromesso storico" non è una formula governativa ma una ipotesi di trasformazione organica del sistema politico. Esso presuppone quindi numerose modificazioni strutturali nei principali sistemi di rapporti su cui si fonda ed articola un sistema politico. In un paese come l'Italia, ormai da sei anni ininterrottamente travagliato dalla "questione operaia" - che oltre ad essere il problema nazionale costituisce il connotato più specifico del "caso italiano" -, uno dei compiti fondamentali del nuovo assetto è quello di ristrutturare e razionalizzare il sistema di rapporti sindacali: struttura competenze e contenuti della contrattazione collettiva, legislazione del lavoro, ruolo dello stato, ruolo del sindacato e distribuzione di potere al suo interno (dalle confederazioni ai consigli di fabbrica). In sintesi quello che gli specialisti chiamano sistema di relazioni industriali, dovrebbe subire una profonda riorganizzazione al fine di ricostituire il controllo ormai perso della relazione produttività/salari che è la variabile chiave dell'intero equilibrio economico capitalistico.
L'assunzione sempre più diretta da parte del sindacato del governo di questa variabile è una delle articolazioni fondamentali della strategia del PCI.
È ovvio che il suo obiettivo di piegare ad essa il ruolo del sindacato incontra numerosi vincoli e controtendenze: anzitutto dalla classe operaia e da alcuni settori imprenditoriali; in secondo luogo all'interno dello stesso sindacato da parte di quelle correnti che sono svantaggiate politicamente dal "compromesso storico" (i settori CISL e UIL più legati alla DC al PRI, al PSDI ed al PSI) o che ricavano la loro forza interna dal ruolo di "sensibili" interpreti della base (i resti della "sinistra sindacale").
Ciononostante questo progetto, perseguito ormai da qualche anno, comincia a trovare significative attuazioni. Compito di questo articolo è ricostruire alcuni profili e delineare alcune tendenze.
La regolazione della produttività del lavoro è, insieme a quella dei salari, il problema fondamentale della moderna industria manifatturiera. Il rapporto tra produttività e salari è la variabile strategica dei processi di sviluppo industriale. Tutte, o quasi, le epoche o i paesi caratterizzati da impetuosi e duratu
ri processi di crescita industriale seguono la scoperta di nuovi più efficienti sistemi (tecnologici, contrattuali, economici, politici) di controllo della produttività, dei salari o del loro rapporto.
Poiché il ruolo del sindacato come oggetto di regolazione dei salari è noto oltre che tradizionale, e poiché alle recenti "prestazioni"» in materia del sindacato italiano gli ultimi numeri di questo giornale hanno dedicato numerosi articoli, ci limiteremo in questo scritto all'esame della funzione di governo della produttività svolta dalle unions del nostro paese in questi anni.
Il comando sulla produttività.
È sufficiente il taylorismo, che creò le catene e esasperò la divisione del lavoro e la sua dipendenza dalla macchina, a mostrare l'importanza, ai fini dello sviluppo industriale, dei sistemi di comando sulla produttività. Eppure il taylorismo è uno dei pochi esempi noti. Non c'è forse un altro aspetto dell'evoluzione industriale così ricco di mutamenti, svolte, varietà di soluzioni, ed allo stesso tempo così poco noto, così poco organicamente ricostruito, come la storia del comando sulla produttività. Non c'è forse un altro problema che abbia concentrato tante risorse ed energie della scienza e dell'organizzazione del capitale eppure ad un tempo così trascurato (o mistificato) dalla "cultura" industriale, soprattutto italiana, soprattutto "marxista".
Molti episodi di questa storia, infatti, vengono publicizzati come innovazioni tecnologiche, come razionalizzazioni organizzative, come perfezionamenti dei sistemi di classificazione, valutazione e retribuzione del lavoro, a volte paradossalmente, come progressi sindacali. Il tessuto unitario, il filo conduttore, il punto di vista organico che, consente la ricostruzione dell'intera storia capitalistica si scompone e si dissimila nelle storie separate (e mistificate) della tecnologia, dell'organizzazione, delle strutture retributive, della contrattazione, e, perfino, del sindacato e del Movimento Operaio; la visibilità organica dell'evoluzione del comando capitalistico si dissolve nei frammenti del tecnicismo degli specialisti aziendali, si diluisce nei rivoli delle storie ufficiali del sindacato; solo guardando in trasparenza attraverso la terminologia mistificata dei grandi scienziati del capitale se ne colgono tracce.
La guerra intelligente e feroce condotta giorno per giorno da milioni di uomini e da gigantesche energie schierate, sbiadisce e scompare nel neutro incidere del "progresso tecnico". La storia vera rimane esclusivo e segreto patrimonio della scienza del capitale e della "memoria" operaia; i processi reali dominio assoluto e riservato della intelligenza degli antagonisti.
È ciò che è sempre avvenuto; è ciò che sta avvenendo anche adesso in Italia.
In queste righe quindi si cercherà di fornire una sommaria ricostruzione dell'evoluzione degli ultimi anni; il lettore voglia considerare le semplificazioni e gli schematismi come testimonianze di rispetto per la sua attenzione.
Schematizzando al massimo, si può sostenere che le forme tradizionali di comando sulla produttività sono: a) la gerarchia; b) la tecnologia; e) l'organizzazione; d) la struttura del salario. Infatti:
a) il controllo sul rendimento esercitato dalla struttura dei capi è il comando per eccellenza, il più artico ed universale (ma anche il più logorato).
b) la tecnologia governa la produttività in tutti i casi in cui il ritmo di lavoro è vincolato (linea a catena) o comunque comandato (come negli impianti chimici e siderurgici) dal macchinario o dall'impianto;
c) il comando dell'organizzazione si esprime in quei casi in cui il gruppo di lavoro o la struttura organizzativa condizionano la produttività del singolo lavoratore sia nel senso che determinano il suo ritmo di lavoro (p. es. le lavorazioni a flusso), sia nel senso che vincolano il suo rendimento minimo (impedendo o contrastando livelli inferiori) perché c'è interdipendenza tra la produttività del singolo e i carichi di lavoro o le retribuzioni degli altri componenti del gruppo (casi di produzione vincolata per il primo caso ed incentivi di squadra per il secondo);
d) anche la composizione del salario svolge un comando, meccanico (cottimi e incentivi) o mediato dalla gerarchia (tutti i tipi di superminimi individuali), sulla produttività.
Non solo ognuna di queste forme ma anche la loro combinazione nel sistema complessivo, hanno subito una evoluzione nel corso del tempo. Una analoga variazione, delle singole forme e della loro composizione, ha luogo tra i differenti settori industriali (e tra i diversi paesi). Si può affermare che ogni industria esprime una specifica struttura di comando; ed ogni epoca è contraddistinta dalla prevalenza di alcuni strumenti e caratteri del comando. Senza poter entrare nell'esame delle differenziazioni tra industrie, cercheremo di cogliere i tratti essenziali della transizione avvenuta ed in atto in Italia.
La crisi del comando: il 1969.
Assumiamo convenzionalmente, come data cruciale della nostra periodizzazione, il 1969. In effetti alcuni dei processi di cui parleremo si sono manifestati prima o dopo, molti si sono delineati in alcune aziende prima che in altre, tutti sono il frutto di una lenta accumulazione che ha avuto luogo negli anni '60.
Nel 1969 dunque vengono sconvolte tutte le forme tradizionali di comando sopra elencate:
a) il potere gerarchico entra in crisi e dai gradini più bassi a quelli più alti l'autorità aziendale subisce contestazioni più o meno violente ma comunque decisive; il sistema disciplinare che lo sostiene manifesta la sua inefficacia tanto di fronte alla coalizione operaia che ad opera della magistratura del lavoro; i capi di basso livello, anche in seguito all'instaurazione dei delegati, non si rialzeranno più dalla crisi e non riacquisteranno più il ruolo precedente (da allora in poi il comando gerarchico verrà mediato dal delegato);
b) il nostrano "gatto selvaggio" non risparmia catene ed impianti "comandati", svelando la "mortalità" dei tabù tecnologici; il trasferimento dalla lotta al lavoro dell'offensiva contro la coercizione della macchina è inconfutabilmente dimostrato dalla generale diminuzione di produttività e di vita media dei macchinari nelle industrie con ritmi e impianti comandati;
c) il controllo del gruppo di lavoro diviene sempre più inerte in seguito all'emergenza della rigidità operaia di fronte all'aumento dei carichi di lavoro; per quanto riguarda gli incentivi di squadra poi:
d) la parte variabile del salario viene in gran parte congelata: il cottimo viene ridimensionato (fondamentale l'accordo Fiat del luglio 1971); gli incentivi ridotti o eliminati (p. es. accordo Italsider). I superminimi individuali infine vengono limitati o aboliti. Per di più l'avanzata salariale affievolisce l'efficacia sul rendimento degli incentivi.
Tutti gli strumenti di comando quindi appaiono in quegli anni fortemente compromessi ed usurati dall'iniziativa operaia e dall'azione del sindacato alla ricerca di spazio e potere propri nelle aziende. È in quegli anni che, grazie alla convergenza (in alcuni casi concertata) delle svolte strategiche dell'azienda (che decide dì fondare la "normalizzazione" produttiva sul pieno riconoscimento e rinforzamento del sindacato) e del sindacato (che decide di assumere un ruolo sempre più importante ed integrato nella gestione aziendale), si profila nella grande azienda un nuovo soggetto di governo della produttività: il sindacato aziendale. L'emergenza del sindacato come attore diretto del comando sul lavoro (attraverso la contrattazione ha sempre svolto indirettamente una funzione del genere), assume in Italia uno specifico profilo contrattuale.
Dal cottimo alla professionalità
Se si escludono gli aumenti del contratto nazionale ed il premio di produzione (legati a specifiche scadenze contrattuali), dieci anni fa il principale strumento di crescita salariale dei lavoratori era il cottimo (e maggiorazioni individuali); i passaggi di categoria erano molto rari e quasi completamente nelle mani dei capi. In questi ultimi anni, invece, la principale lievitazione salariale è stata realizzata attraverso i passaggi di categoria ottenuti in massa a livello aziendale nel quadro dello "sviluppo professionale" avanzato e rivendicato dal sindacato con il contratto del 1972 sull'inquadramento unico.
Ambedue questi istituti, cottimo e passaggi di categoria, sono regolati contrattualmente, quindi ratificati dal sindacato. C'è però tra essi una sostanziale differenza: del cottimo si contratta solo la formula che può essere più o meno favorevole: poi però il salario effettivo è funzione del rendimento del lavoratore e dell'arbitrio del cronometrista; nei passaggi di categoria il sindacato contratta (quindi determina) non solo i criteri generali, ma i provvedimenti effettivi. Nel primo caso non ha alcun potere sul salario effettivo (quindi sul lavoratore); nel secondo ne ha l'assoluto dominio, quindi dispone di un efficientissimo strumento di controllo sui lavoratori.
Con il deperimento del cottimo e l'affermazione dello "sviluppo professionale" si svolgono due processi paralleli: si accresce enormemente il controllo sindacale sui comportamenti operai (attraverso la gestione materiale del loro salario); si trasferisce una quota di comando sulla produttività dal sistema aziendale (che progettava il sistema di cottimo ed amministrava attraverso la rilevazione dei tempi il salario effettivo) al sindacato.
Questo processo di transizione riesce a compiersi grazie alla convergenza di tre interessi: i lavoratori sottraggono il loro salario al rapporto meccanico con il rendimento; il sindacato si impadronisce di un poderoso strumento di controllo sui lavoratori (e conquista quindi il pieno riconoscimento nelle grandi aziende); le aziende che sempre più tendono ad affidare al sindacato il monopolio in materia di gestione e controllo della forza lavoro, considerano il crescente potere sindacale come un fattore di garanzia dell'ordine aziendale o almeno come un male minore rispetto alla "conflittualità permanente". Infatti il governo del salario effettivo, se non fosse stato trasferito al sindacato, sarebbe rimasto nelle mani, ben più incontrollabili ed aggressive, del comportamento operaio; il salario ingovernato ed ingovernabile, avrebbe assunto andamenti ben più intollerabili; la crisi di tutti i precedenti sistemi di retribuzione avrebbe partorito una spinta salariale a null'altro ancorata che alla autonoma ed incontrollabile crescita dell'organizzazione operaia; il salario sarebbe divenuto funzione dell'intelligenza e della creatività operaia.
Essendo, quindi, irrimediabilmente usurato qualsiasi sistema di controllo oggettivo della relazione produttività salari, le aziende puntano tutto sul controllo sindacale. Nel '72 con lo "sviluppo professionale" affidando al sindacato il controllo dei salari (come oggi tendono a trasferirgli quello della produttività).
Ed il progetto non era insensato. Il sindacato avrebbe acquisito il completo controllo dei comportamenti operai perché ne amministrava la crescita salariale attraverso i passaggi di categoria. Lo scambio sarebbe stato tra i costi che le aziende avrebbero dovuto sopportare ed i benefici sperati in materia di ordine aziendale e produttività.
Ma le cose non andarono esattamente così. La spinta salariale operaia nella fase di applicazione aziendale dei principi di "sviluppo professionale", originò un'"ondata", praticamente ininterrotta negli anni '73/74, di passaggi di categoria. Il costo quindi divenne molto maggiore del previsto. I benefici molto minori perché la crescita salariale risultò gestita dai gruppi operai ed il controllo sindacale non ci guadagnò gran che. Inoltre, di fronte alla ricostituzione di un sistema di controllo almeno formalmente vincolante la spinta salariale dal basso, gli operai reagirono con la massiccia sottrazione di lavoro: l'assenteismo ed il calo di rendimento crebbero ininterrottamente.
A conti fatti il bilancio dell'operazione, sindacal-aziendale risultò disastroso. L'iniziativa operaia aveva logorato il più intelligente e sofisticato sistema di controllo della forza lavoro messo in atto dal dopoguerra: a dispetto del suo fallimento, lo "sviluppo professionale" contrapposto alla classe operaia del 1969 fu una dimostrazione di creatività sindacale, di maturità raggiunta da un sindacato ormai divenuto una moderna organizzazione di gestione della forza lavoro.
L'ideologia della "professionalità", che tanto ha turbato (e continua a turbare) i sogni dei nostrani sindacalisti di "sinistra" (soprattutto nella FIM) e dei loro vicini e lontani parenti nei gruppi "rivoluzionari", non è altro che una espressione (o, se si vuole, una escrescenza) più marcata e vistosa di un razionale progetto strategico che accomuna l'intera organizzazione sindacale: gestire la "professionalità" (ovvero il salario) per fondare materialmente il governo assoluto e monopolistico dei comportamenti operai. E lo scontro, tutto sindacale, tra "professionalità" ed "egualitarismo" non ha nulla di ideologico se non la stupidità di chi gli dà credito (dentro e fuori del sindacato, sostenitore o critico, "riformista" o "rivoluzionario", "leninista" o "autonomo"). Il vero scontro nel sindacato si produsse tra chi (FIOM/PCI) voleva il minimo di passaggi automatici per realizzare una gestione assolutistica del salario e chi riteneva fosse meglio accumulare un certo consenso di base attraverso gli automatismi, portare a termine un'accumulazione primitiva di consensi per fondare in modo più indolore il controllo successivo; c'era poi una frazione trascurabile (le ali estreme della FIM e della "sinistra" sindacale ed i loro "fans" esterni) che credeva all'egualitarismo e voleva portare avanti le rivendicazioni operaie; ma questo è un fenomeno che attiene alla psicologia e non alla lotta politica ed è definibile con le categorie dell'intelligenza o della stupidità. Infatti un sindacalista che si proponga di essere fedele rappresentante degli interessi operai equivale ad un generale che creda nella libertà.
Il nuovo comando: il sindacato in fabbrica
Nel corso del 1975 matura, in campo aziendale e sindacale, la nuova svolta, ed arriviamo alla fase presente, quella inaugurata in modo esemplare dall'ultimo contratto nazionale. Essa è destinata ad assumere in questo periodo profili sempre più netti ed una brusca accelerazione in caso si realizzi una qualsiasi soluzione e gradazione di "compromesso storico".
Nel 1975 gli strumenti aziendali di comando hanno ripreso un po' di vigore perché il sindacato è riuscito a limitare la conflittualità (in fasi di lotte intense infatti essi si articolano fin quasi a svanire): i capi anzittutto sempre più coadiuvati dai delegati; poi le norme e procedure di lavoro (tanto emesse dalla gerarchia che emanate dai macchinari); inoltre il controllo dei gruppi di lavoro (esaltato ed incoraggiato dai militanti del sindacato e del PCI in qualità di agenti ideologici - e materiali perché non manca la "gratitudine" aziendale - della nuova etica del lavoro); ormai morto il cottimo, infine, non mancano i progetti e tentativi di sostituirlo con i più moderni e sofisticati incentivi di rendimento collettivo (o addirittura superminimi e indennità). Ma oltre a rispolverare e rimodernare i vecchi strumenti, la scienza pratica del capitale non ha mancato di importare quelli più moderni di provenienza statunitense: tutti i tipi modelli e qualità di riorganizzazione del lavoro (job redesign, dicono loro) riverniciati in loco dai nostrani sociologi "rivoluzionari" con i canonici aggettivi del submarxismo nazionale, hanno fatto la loro timida comparsa nelle aziende "illuminate".
Ma tutto ciò non è bastato e non basta. L'elemento insostituibile di ogni strategia aziendale di recupero della produttività e del controllo salariale è ancora il sindacato (ed al suo interno il PCI svolge un ruolo da protagonista riconosciuto e gratificato dai nostri managers). Ma i termini della amichevole trattativa sono lievemente più favorevoli all'azienda, perché un margine di autonomo controllo aziendale sembra riacquisito. Ne deriva che:
1) Il controllo sindacale deve divenire meno costoso. Obiettivo fin adesso raggiunto se si esaminano tanto i risultati del contratto nazionale che, soprattutto, la dichiarazione della FLM sulla contrattazione aziendale ed il blocco del premio di produzione, accettato dai chimici.
2) esso deve tradursi in concreti vantaggi aziendali in termini di produttività. Ciò che non è potuto essere negli ultimi anni, malgrado il potere concesso con la contrattazione dello "sviluppo professionale", deve cominciare adesso. Ed a conferma vedi le dichiarazioni della FLM sull'assenteismo (e l'aumento del contratto dei chimici concesso ai soli presenti in fabbrica) e le concessioni sulla mobilità fatte nel 75 nelle grandi aziende e formalizzate con il contratto nazionale. Ma non è che l'inizio. Il sindacato deve tramutarsi in garante diretto della produttività attraverso la sua capillare, rete organizzativa (delegati militanti) costruita in questi anni. Questa rete fin adesso è servita al controllo delle lotte e, quindi, del salario. Adesso deve essere adibita al comando sulla produttività, attraverso gli strumenti dell'ideologia del lavoro, della repressione diretta (vedi squadre di vigilanza) ma soprattutto mediata attraverso i provvedimenti disciplinari dell'azienda, della gestione di vantaggi materiali concessi dall'azienda (aumenti, promozioni, etc.) e dal sindacato (l'elezione a delegati, per cui si lavora di meno, o a rappresentanti distaccati, funzionari sindacali e così via).
3) Per sostenere questo maggiore controllo che si richiede al sindacato, le aziende sono disposte a concedere nuove risorse oltre quelle sopra elencate, ad affidargli la gestione di altre componenti della condizione operaia: le assunzioni per esempio (il CdF dell'Alfa di Milano già partecipa ai colloqui di selezione); la mobilità tra reparti e stabilimenti; la riqualificazione della forza lavoro nel territorio; e, in caso di necessità, perché no? la concessione dei benefici contrattuali ai soli iscritti al sindacato. O magari - capolavoro di strateghi sociali coalizzati: banchieri, governanti vecchi e nuovi, e sindacalisti pensosi dei destini nazionali! - la riforma della scala mobile: essa infatti potrebbe ridurre la quota automatica della crescita salariale assegnandola di nuovo in gestione al sindacato (ovvero alla contrattazione).
La scala mobile infatti è stato il più grosso errore di calcolo sociale e di valutazione della classe operaia compiuto dal capitale negli ultimi anni, nella misura in cui ha creduto che automatizzando la crescita salariale avrebbe diminuito la conflittualità; ha cioè pensato che il salario atteso dagli operai fosse fisso e raggiungibile dal salario effettivo (mentre non c'è nulla di più mobile del salario preteso dagli operai che è meno raggiungibile della tartaruga di Achille). E quindi storicamente plausibile che a correggerlo siano organizzazioni dotate di maggiore "professionalità" ed esperienza in materia di controllo della classe operaia, come il PCI.
Infine, un altro grande stock di risorse che sostengano la sua nuova funzione potrebbe venire al sindacato dall'ideologia del lavoro (per il socialismo) la cui esplosione accompagnerebbe l'integrazione del PCI nel governo.
In conclusione, le aziende sono pronte a fornire al sindacato tutte le risorse (non economiche) reperibili all'interno di una ristrutturazione del sistema di relazioni industriali; ma in cambio pretendono che la organizzazione sindacale assuma in modo sempre più esplicito e diretto oltre la regolazione dei salari, il comando sulla produttività.
Conclusione
Se il "compromesso storico" è, in fin dei conti, un modello di stato organico di derivazione hegeliana, la nuova figura sociale del sindacato, la sua integrazione diretta nell'insieme delle funzioni aziendali (magari senza mai arrivare alla cogestione formale anzi preservando una quota di conflittualità ed antagonismo a fini di copertura) disegnano un'impresa organica ed auto-regolata, un sistema socio-tecnico (come lo chiamano i teorici del capitale) volto alla "massima valorizzazione delle risorse umane" (così si chiama la produttività nel più moderno fariseismo scientifico); in una parola il sogno di tutti i tecnocrati degli ultimi 50 anni.
Sia ben chiaro, si tratta di tendenze non limpide, di progetti non formulati e forse nemmeno concepiti, che noi estrapoliamo a fini esplicativi. Eppure essi galleggiano sul fondo di quello stagno avvizzito, fatto di inerti rottami ideologici, di residuati culturali anteguerra e di moderne tecniche del consenso e della repressione, che è il bagaglio teorico dei dirigenti del PCI.
Ma ciò interessa meno la storia sociale che la pubblicistica. Più significativa è la conclusione che il sindacato come progetto di dispotismo crescente sulla relazione produttività-salari è uno dei fondamenti dell'ipotesi di nuovo assetto strutturale del sistema politico contenuta nella strategia del "compromesso storico".
Rosso, giornale dentro al movimento - pagine 31/34
