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A proposito di PCI ed organizzazione del lavoro

I problema dell'organizzazione del lavoro non può essere, oggi, considera­to scorrelato dalla crisi, crisi complessi­va dell'assetto capitalistico e delle sue istituzioni sul piano nazionale e inter­nazionale.

Organizzazione del lavoro come speci­ficità del presentarsi del comando del lavoro morto sul lavoro vivo, ma speci­ficità conseguente e complementare al­l'attuarsi della coercizione al plusvaloro che è saltata per l'azione operaia, e che perdurando a non darsi, ha determi­nato la crisi, e continua a determinar­la. In tale contesto, nonostante la sche­maticità a cui ci costringe lo spazio, appare chiara la mistificazione dei "nuovi modi di produrre", del "job enlargement", della "ricomposizione delle mansioni", e, in più in generale, delle filosofìe del "job redesign". Misti­ficazione perché? E quali ipotesi sottostanti a tale mistificazione si presenta­no per il capitale e per i riformisti?

La somma di due numeri interi è sem­pre un numero intero, come la somma di un qualsivoglia numeri interi è sem­pre un numerò intero; cosi a meno di non volerci rifare a certi meccanismi deterministici engelsiani per cui la quantità diverrebbe qualità nuova, i nuovi modi di produrre restano som­ma di mansioni, senza che in tal modo a partire solo da essi la forma del co­mando del lavoro morto sul lavoro vi­vo venga effettivamente intaccata. Ma dietro tali filosofie ci sta ben altro.

Nonostante tutto per il PCI esiste la consapevolezza, che "i nuovi modi di lavorare vengono sperimentati in iso­le... e gli stessi risultati non vengono minimamente socializzati" (Misiti R., Nuovo ruolo della scienza e della tecni­ca, Convegno Istituto Gramsci "Scien­za e organizzazione del lavoro") e che dato " lo stretto rapporto esistente tra organizzazione del lavoro, tipo di pro­duzione, livello tecnologico" e "Ricor­dando l'avvertenza che l'organizzazio­ne del lavoro ha una sua autonomia seppure relativa, bisogna sapere che se essa si persegue un superamento si possono seguire due vie:

a) Quella di un superamento in pun­ti isolati, negli aspetti più in crisi, più aberranti, quella cioè di un superamen­to campione. Ciò può richiedere anche alcune modificazioni della tecnologia, ma può sostanzialmente avvenire sen­za grandi mutamenti. Si può ottenere ciò agendo sull'organizzazione del lavo­ro in quanto tale. Si tratta, tuttavia di un superamento fittizio, di un falso superamento;...

b) Si può seguire una seconda via, quella di un superamento ampio, rea­le, sociale. Ciò pone problemi di pro­duttività, e di produttività non azienda­le soltanto, ma di produttività sociale". (Cervetti G., Politica economica e svi­luppo industriale, Convegno cit.).

Ma in che consiste tale consapevolez­za? Quali soluzioni pratiche ipotizza og­gi il PCI in tale prospettiva?

L'enunciazione del PCI a tale propo­sito sono abbastanza chiare, quali con­seguenze logico-politiche delle ipotesi del Capitale. E ciò non tanto sulla specicfiità delle forme dell'organizzazione del lavoro, quanto nella prospettiva di una nuova articolazione tra comando del lavoro morto sul lavoro vivo e coer­cizione al pluslavoro. Infatti esiste una duplice faccia delle ipotesi del PCI sull'organizzazione del lavoro: una all'odierno ruolo del sindacato, l'al­tra in connessione con l'essere il PCI all'interno del sistema dei partiti, nel­lo stato.

Ora seppur articolate tra loro i due aspetti suddetti non vanno confusi e scambiati tra loro. Non entrerò nel me­rito del rapporto tra partito e sindaca­to se non per dire che oggi la riproposi­zione di una cinghia di trasmissione so­cialdemocratica affida al sindacato la funzione di gestione dell'organizzazione del lavoro nell'impresa, quando invece l'attuarsi di nuove forme di coercizio­ne al pluslavoro vede il partito come soggetto cardine. È qui dove il proble­ma dell'organizzazione del lavoro assu­me tutta la sua portata, la sua impor­tanza, perché va ben oltre il suo essere tale; diventa, dal punto di vista del par­tito, ipotesi di organizzazione sociale complessiva, correlata all'ipotesi tota­lizzante di organizzazione della produt­tività sociale complessiva. È qui, d'al­tra parte, che i nuovi modi di produr­re divengono il campo di sperimenta­zione, o forse più, il punto medio di un processo in atto dentro la crisi co­me ipotesi di superamento della crisi stessa.

Non che "nuovi modi di produrre" puntuali qua e là rappresentino solo og­gi campo di sperimentazione e che im­mediatamente da esperimento diventi­no punto medio di mutamento comples­sivo dell'assetto produttivo. Per chiari­re tale fatto può servire un rimando storico: F.W. Taylor all'inizio del seco­lo, con le sue ipotesi di scomposizione del processo lavorativo aveva per certi versi proprio rappresentato una fase sperimentale, ma pensare che il taylorismo si sia generalizzato naturalmente perché Taylor aveva inventato una ma­tematica del lavoro sarebbe errato, né in sé tale matematica avrebbe potuto generalizzarsi, neppure nelle sue più raffinate applicazioni pratiche: la cate­na che nel 1914 Henry Ford intro­dusse nella sua fabbrica. L'articolazione tra matematica tayloristica e sala­rio, che Henry Ford scoprì, rappresentò il punto medio di generalizzazione dei nuovi modi di produrre di allora, e lo rappresentò soggettivamente dentro una agibilità di tale articolazione dal punto di vista dei singoli capitalisti, ma anche come agibilità mediata dallo Stato new-dealista nella crisi '29-'37.

Ora credo che dentro la tendenza di un'agibilità soggettiva dei "nuovi mo­di di produrre" attuali vada ricercata la possibilità della trasformazione del­l'esperimento in punto medio di un mu­tamento complessivo dell'assetto im­prenditoriale. E i soggetti proponenti sono capitale e stato, e dentro lo stato il PCI.

Vediamo le ipotesi del PCI a proposi­to: secondo Cervetti (cit.) le "condizioni e rapporti specifici economico-sociali della realtà italiana, con le sue caratteristiche peculiari storiche e strutturali si legano: mercato del lavoro, tecnologia, indirizzi produttivi. Il legame (tra essi si articola) in tre nodi, o  in  tre gruppi di rapporti: nella permanenza di elementi di rendita ..., in elementi speculativi..., nella collocazione internazionale dell'economia italiana ...". Ora è in­dubbio che tali parametri identificati nell'ipotesi del PCI sui problemi dell'or­ganizzazione del lavoro siano parame­tri realmente politici, solo che le ipote­si di un'agibilità soggettiva su di essi basantesi viene proposta esclusivamente, nella sostanza, dal capitale. Il parti­to si accoda con un semplice condimen­to di discorsi vaghi e fumosi sul dirit­to al lavoro, sul ruolo diverso dalla scienza, sul nuovo modello di sviluppo da un lato; sulla priorità del profitto, sulle riforme, su nuove collocazioni in­ternazionali dell'Italia dall'altro. L'ini­ziativa su tali parametri politici è nel­le mani del Capitale, e il Partito si limi­ta ad essere il suo grillo parlante.

Il rapporto tra rendita e profitto, è visto dal Capitale entro una nuova fa­se di sussunzione del lavoro al capita­le, e non in termini moralistici; dentro tale tendenza in atto si pone per il capi­tale il problema delle riforme, e non co­me problema a sé stante parallelo alle dinamiche di produzione e riproduzio­ne del capitale come invece, per tanti versi, vorrebbe lasciar intendere il PCI. Gli elementi speculativi si pongo­no per il capitale , caldorianamente, co­me elemento centrale del dominio del capitale finanziario entro il processo di sussunzione del lavoro al capitale, attuantesi sotto la spinta delle multina­zionali, che per altro definiscono e dina­micamente determinano il ruolo dell'I­talia nell'ambito internazionale. Ora, entro tale articolazione totalizzante del­l'ipotesi di un capitale complessivo in­ternazionale, tendente a ridefinire i ter­mini dell'attuazione della coercizione al pluslavoro, i nuovi modi di produrre tendono a porre i parametri specifici del comando nel rapporto tra fabbrica e società sia in relazione al mercato del lavoro, che alle forme di mercato.

L'organizzazione del lavoro nell'endogenizzarsi allo sviluppo delle forze pro­duttive, diviene elemento di mediazio­ne del rapporto fabbrica/mercato, e, si propone come elemento di mediazio­ne del comando al di là dell'impresa, nel rapporto produzione di merci pro­duzione e riproduzione di forza lavoro.

LE TENDENZE ATTUALI DELL'OR­GANIZZAZIONE DEL LAVORO DI­VENGONO COSI' IL PUNTO MEDIO DELLA TERZIARIZZAZIONE DEL LA­VORO.

Terziarizzazione del lavoro come "processo di evoluzione di quella par­te di lavoro vivo che non viene trasmes­so alla macchina, non viene meccanizza­to e cibernetizzato neppure ai più alti livelli attualmente raggiunti dal pro­gresso tecnologico; ma anzi: cresce so­cializzandosi proprio con l'estensione del macchinario, passando a sempre nuove, più produttive, funzioni (produt­tive di plusvalore)" (Alquati R., Terzia­rio, terziarizzazione e sindacato; in Fo­glio di Zona n. 1)

In tale contesto, dunque, i nuovi mo­di di produrre si situano entro una ten­denza alla terziarizzazione del lavoro di fabbrica, che è condizione necessaria al prosieguo del processo di sussunzio­ne del lavoro al capitale in un ambito sociale complessivo.

La robottistica, le isole, ecc. rappre­sentano, il punto massimo dello svilup­po tecnologico nella fabbrica metalmec­canica, giunto al punto in cui il lavoro vivo non è più meccanizzabile, in cui necessariamente al capitale si presen­ta, per così dire naturalmente, in cam­po di sperimentazione di nuove forme di estrazione di plusvalore di nuove forme di coercizione al pluslavoro. È di qui che parte il processo di estensificazione e di generalizzazione al tessuto sociale complessivo di un nuovo rapporto, di una nuova articolazione tra comando del lavoro morto sul lavoro vivo e coercizione al pluslavoro. Ora al sindacato è delegato dal partito il controllo su tali processi di terziariz­zazione del lavoro di fabbrica, ma al PCI appartiene l'ipotesi dell'estensificazione complessiva, dell'intervento sul sociale, ipotesi che per altro, da buon grillo parlante, ha mutuato dal capita­le multinazionale.

Intervento sul sociale tendente a ri­creare all'esterno della fabbrica, nel­l'ambito della divisione sociale dei lavo­ro, l'attuabilità del comando e della coercizione. È tale l'ipotesi politica che guida il sistema dei partiti, dentro lo Stato. È qui dove il PCI assume ipote­si strategiche neoricardiane, sraffiane, atte a regolare il rapporto tra produzio­ne circolazione delle merci dal lato del­la distribuzione. È in tale ambito che si dà realmente il rapporto tra PCI e organizzazione del lavoro. È qui dove il PCI diviene effettivamente soggetto di comando.

Ma anche qui il grillo parlante mu­tua dalle ipotesi del capitale. Passare da un mercato liberistico, da un merca­to anarchicamente concorrenziale ad un mercato a domanda razionalizzata, è l'i­potesi guida del capitale multinaziona­le. Parametrizzare la domanda richie­de però la mediazione complessiva di un'articolazione sociale tra comando e coercizione al pluslavoro. Tale articola­zione viene ad incontrarsi complessiva­mente entro i nuovi processi di sussun­zione del lavoro al capitale, entro cui il comando totalizzante del lavoro mor­to sul lavoro vivo, nell'ambito del lavo­ro sociale complessivo può essere me­diato soggettivamente solo dal partito socialdemocratico delle multinazionali (in Italia il PCI). Ma dato il grado di sviluppo attuale delle forze produttive tale mediazione non può che essere me­diazione organizzativa, non d'organizza­zione dell'insubordinazione operaia e proletaria, ma d'organizzazione del la­voro sociale terziarizzato, del control­lo sociale.

È tale il ruolo che si è assunto il PCI socialdemocratico. Il ruolo d'orga­nizzazione nella fabbrica sociale terzia­ria presuppone anche la necessità-possi­bilità di modificare radicalmente le di­namiche del mercato del lavoro e le forme dell'organizzazione sociale. Alla ten­denza alla parametrizzazione del merca­to, imperniata sulla razionalizzazione del settore distributivo viene a correlarmercato a domanda razionalizzata, è il mercato a domanda razionalizzata, è il mercato del lavoro che sottende la ne­cessità di trovare completa attuazione di esercizio di comando terroristico sul sociale; ed è proprio il PCI che se ne sta assumendo il carico.

L'etica del lavoro del PCI socialdemo­cratico è qualche cosa di molto diver­so dall'etica, e dalla concezione del la­voro di tradizione leniniana, che per al­tro l'evolversi della lotta di classe ope­raia contro il lavoro e dei comporta­menti operai di rifiuto del lavoro aveva­no messo in discussione ed espulso dal­la "classe in sé". L' "etica del lavoro" che il PCI sta portando avanti oggi è degna dei legislatori sanguinari del XVIII secolo (mutati i termini, d'accor­do, perché è terrorismo antiproleta­rio). Non si basa neppur più sulla sepa­razione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo nella loro articolazione classica, ma sull'assunzione di criteri razzisti su cui, poi, vengono tracciate le discriminanti tra l'abile al lavoro che deve necessariamente lavorare entro la fabbrica sociale, e l'inabile che do­vrà essere ghettizzato in qualche mani­comio sociale.

Ma l'etica del lavoro terroristica del PCI resta un'utopia e probabilmente molto presto si trasformerà in un'ideo­logia senza senso proprio in un siste­ma in cui le ideologie non avranno più spazio. Ciò perché al PCI manca il con­trollo su una variabile: la classe ope­raia.

Rosso, giornale dentro al movimento - pagine 35/36