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lavorozeroluglio75_51Apriamo con questo articolo un dibattito sul ruolo ed il significato politico delle imprese multinazionali dentro il quadro internazionale della crisi.
La complessità e l'articolazione dei problemi politici che un simile argomento pone al momento dell'analisi teorica, ci costringe ad un'esposizione forzatamente settoriale e frammentaria, che si svilupperà in una serie di articoli, nel tentativo di ripercorrere gli aspetti principali di quello schema socio-economico che prende il nome di imperialismo.
Il punto di vista che intendiamo assumere è quello dell'operaio multinazionale, delle sue lotte nei paesi metropolitani, della composizione politica.
Crisi energetica, crisi del ciclo dell'auto, distruzione della rete internazionale dell'emigrazione, ed in prospettiva ricomposizione del comando internazionale a partire da nuove basi del processo di accumulazione capitalistica: settore energetico, settore chimico, settore della telefonia; queste sono le coordinate che definiscono l'attuale quadro delle tendenze e del programma imperialista.
La rigidità delle attuali lotte operaie internazionali, come documenteremo in seguito, non ammette una interpretazione "oggettiva" ed unilaterale di queste tendenze.
Ciò non di meno esporremo in questo primo articolo, quelle condizioni che nel progetto politico delle imprese multinazionali si presentano come irrinunciabili per una ripresa del controllo sulla classe e sui suoi comportamenti.

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Tra i caratteri distintivi del capitalismo contemporaneo va senz'altro posta l'impresa multinazionale, quell'impresa cioè, che a partire da un paese-madre, possiede interessi produttivi, finanziari, commerciali in campo internazionale dandosi in questo modo una caratteristica che deve necessariamente portarla al superamento dei limiti nazionali anche nella possibilità reale di vanificare quelle misure di carattere economico prese nel paese-madre qualora le stesse non coincidessero con i programmi dell'impresa.

E proprio per questa sua possibilità di sovrapporsi e di imporsi allo stato di appartenenza - si fa per dire giacché sarebbe più corretto, date le dimensioni di diverse multinazionali, dire piuttosto lo stato che le appartiene - l'impresa multinazionale accentra l'attenzione di economisti e politici i quali, di fronte a questa realtà emersa in modo così violento in questi ultimi anni, profetizzano sul mondo a venire sorvolando con sufficienza sul ruolo ben più significativo che svolgono e che sono chiamate a svolgere le masse lavoratrici nella creazione di nuovi rapporti sociali.

Ma nella volontà di dare alla multinazionale un volto che essa non possiede di elemento razionalizzante dello sviluppo è cominciata anche una manovra di diversione che tende a contrapporre in maniera alquanto artificiosa e artificiale stati e multinazionali, o meglio, governi e multinazionali senza far trasparire neanche il dubbio che governi e multinazionali stiano operando piuttosto nel senso della spartizione dei compiti rispettivi che chiaramente possono ridursi al compito di programmatore economico quale attributo dell'impresa multinazionale e a quello di regolatore sociale nelle forme assistenziali e in quelle repressive per quanto si riferisce allo stato. Difatti lo stato nazionale è condizionato dai suoi stessi confini oltre i quali non ha giurisdizione, per cui non è in grado di pianificare un qualsiasi programma economico che si realizzi in campo internazionale, laddove cioè, è presente la multinazionale. Deve pertanto adeguarsi alle necessità dello sviluppo capitalistico e la cosa non deve stupire giacché da sempre sono state le forme politiche ad adeguarsi alle realtà economiche e non viceversa, per cui lo stato che si adegua alle necessità dell'impresa capitalistica moderna che ha carattere multinazionale, non fa altra cosa, per dirlo in modo eufemistico, che il proprio dovere.

Se conflitti possono esistere fra la multinazionale e un governo, questi si devono esclusivamente a due possibilità; una di queste è quella che si è verificata in Cile dove la ITT, multinazionale avente un fatturato superiore al reddito nazionale dello stesso Cile, ha imposto la forma di governo che non contrastava con i propri interessi; l'altra è quella che si verifica in Italia dove allo sviluppo delle multinazionali non è corrisposto lo sviluppo delle strutture dello stato che rendono difficoltosi e a volte anche improbabili i processi accumulativi di capitale di cui l'impresa multinazionale ha un grande bisogno per il volume faraonico degli investimenti che effettua.

Ed ecco perchè Agnelli, padrone di una delle imprese multinazionali tra le più importanti del mondo, lancia i suoi attacchi allo stato nella volontà di richiamarlo al ruolo che lo sviluppo economico gli assegna, quello sviluppo economico che, per procedere secondo i piani tracciati, ha bisogno di uno strumento di controllo il più possibile articolato e il più possibile efficace. Uno strumento che sappia contenere l'emarginazione progressiva di ampie masse dalla produzione con tutti gli effetti economici che ciò comporta, uno strumento che sia capace di assicurare la presenza giornaliera della manodopera integrata ai processi produttivi, uno strumento che sia capace di reprimere il malcontento e la protesta inevitabili in seguito ai progressivi licenziamenti, all'uso della cassa integrazione, al vorticoso accrescersi del costo della vita e all'altrettanto veloce svalutazione che subisce il denaro - aspetti purtroppo in fase di peggioramento, malgrado le celebrazioni apoteosiche della capacità di ripresa - uno strumento, infine, che sia in grado di assicurare la tranquillità sociale necessaria alla ripresa produttiva, e tutto ciò in quadro internazionale dove la convivenza pacifica deve nello stesso tempo salvaguardare la funzione regolatrice degli stati rispetto alla necessità dello sviluppo degli scambi internazionali, il che, data la situazione, significa offrire alle multinazionali il terreno favorevole alla propria crescita economica e politica.

E, in rapporto a questa manovra di diversione, il Corriere della sera del 10 giugno, riferendosi ad un convegno di economisti svoltosi in Francia, convegno che ha affrontato anche il problema delle multinazionali, scriveva testualmente: "Su due aspetti delle cose gli economisti di Suresnes sono unanimi: 1 ) inflazione e disoccupazione non sono un prodotto spontaneo del disordine, bensì gli strumenti coi quali il capitalismo si difende; esso dà ai lavoratori con una mano e ritoglie loro il vantaggio con l'altra; inflazione e disoccupazione impoveriscono i poveri e arricchiscono i ricchi. 2) Il fenomeno nuovo delle multinazionali esautora i governi ai quali sarebbe ormai impossibile, anche se lo volessero, domare il mostro. Le multinazionali non possono sempre essere disarmate col mezzo della nazionalizzazione, poiché il più spesso dividono il lavoro fra le varie filiali nei vari paesi, rendendole interdipendenti".

lavorozeroluglio75_52A parte le relazioni che l'articolista stabilisce tra il disordine, la disoccupazione e l'inflazione, relazioni su cui bisognerebbe fare un discorso che lasciamo ad altra occasione, ciò che nell'articolo ci preme sottolineare è la volontà di far trasparire un conflitto fra multinazionali e governi come se questi ultimi rappresentassero un volere popolare, pubblico che non coinciderebbe con gli interessi privati delle imprese multinazionali, come se lo stato fosse uno strumento di difesa del cittadino e non uno strumento che ‘legalizza' i rapporti di potere esistenti.

Precedentemente abbiamo considerato le possibilità di ‘divergenza' fra governo e multinazionale, ora ci interessa mostrare come queste divergenze sono una semplice eccezione e non una norma.

I contenuti di quella che correntemente viene definita ‘civiltà contemporanea' e progresso, trovano la loro concretizzazione nel volume di merci che riescono a produrre e nelle infrastrutture che riescono a creare. Orbene, se un'impresa di un paese industrialmente sviluppato crea una filiale in un paese sottosviluppato, porterà qui un certo capitale che generalmente si esprimerà in termini di aumento di circolazione monetaria, in appropriazione, anche se limitata di tecnologia e in ogni caso rafforzerà i rapporti di produzione capitalistici del posto poiché li lega a quei cicli internazionali che si sono solidamente affermati. Ragione per cui c'è un vantaggio per le borghesie capitalistiche nazionali che importano l'impresa e c'è vantaggio per le imprese che si trasferiscono sul posto alle quali viene offerto un mercato vergine, agevolazioni fiscali e apparato dello stato giacché diventa inevitabile l'asservimento di quest'ultimo alla potenza della multinazionale. Ma poiché l'impresa multinazionale esporta capitali dal paese-madre verso un altro paese, si potrebbe obiettare che il paese-madre è interessato ad ostacolare l'esportazione di capitali. Il che non è vero. Difatti nei paesi industrialmente sviluppati, c'è una grande necessità di disporre di capitali liquidi, di moneta con cui poter finanziare gli investimenti necessari, da un lato per automatizzare i processi produttivi che permettono di utilizzare una quantità minore di manodopera nell'intento di eliminare sia i costi che i conflitti di lavoro, dall'altro per sotituire i macchinari obsoleti. Ora è chiaro che la crescita economica e finanziaria di una impresa è legata, fra l'altro, alla possibilità di conquistare nuovi mercati dove realizzare profitti. Per cui l'interesse multinazionale di una impresa è perfettamente in armonia con la sua possibilità di sviluppo, il quale, a sua volta, è necessario sia per mettere in pericolo i rapporti di produzione e di proprietà esistenti, sia per riaffermarli. luglio75_multinazionali_5Per cui anche in questo caso non è possibile notare alcuna conflittualità fra governi e multinazionali. Le imprese industriali oggi trovano più produttivo esportare capitali e tecnologia che esportare merci, per cui questo tipo di esportazione si va sostituendo a quella di manufatti e poiché ciò rientra nella normalità dello sviluppo capitalistico non riusciamo a capire come stato capitalistico e impresa capitalistica possano entrare in conflitto. E la prassi dell'esportazione di capitale e tecnologia è così normale, che gli USA, che in proposito sono all'avanguardia, per affermare la normalità di questo metodo, mantengono un esercito mostruoso che salvaguardi gli interessi che le multinazionali hanno in tutto il mondo, e sono così avanti su questa strada che si ritiene che fra una decina d'anni esporteranno solo capitali e importeranno solo profitti.

Chiarito questo problema, veniamo all'inflazione e alla disoccupazione, a questi enormi problemi della società capitalistica ai quali l'impresa multinazionale non è di certo estranea. Difatti, una delle caratteristiche dell'impresa multinazionale è la sua presenza sui mercati internazionali, o meglio è la sua presenza su un mercato che utilizza valute di vario tipo. Sul mercato queste imprese vendono e comprano e compiono queste operazioni in modo tale da trarre i maggiori profitti possibili sia dall'una che dall'altra operazione. Ma la presenza sui mercati impone la necessità di disporre di liquido e di strumenti di intervento che sono dati dalle banche senza le quali nessuna multinazionale potrebbe esistere. Anzi una delle condizioni per l'esistenza della multinazionale è la copertura di istituti finanziari che permettono la costante mobilità dei profitti, che permettono al denaro di aumentare senza posa. La Montedison, ad esempio, partecipa direttamente in 10 istituti finanziari di cui uno è francese e un altro è svizzero; e indirettamente in 14 istituti finanziari 5 dei quali sono svizzeri. Ora è noto che la Svizzera oltre ad essere un paradiso fiscale, è anche un paese dove si realizzano enormi operazioni bancarie, per mezzo delle quali è possibile alterare il valore di una moneta nel senso di maggiore convenienza. Fra l'altro, il valore di una moneta è inversamente proporzionale al saggio di inflazione che si verifica nel paese emissore: più il processo inflattivo è alto, meno la moneta vale. Ciò si può esprimere anche in questo modo: più moneta c'è in circolazione meno i prezzi delle merci sono luglio75_multinazionali_4stabiliti. Poiché le banche sono le uniche a poter regolare il flusso della liquidità monetaria sul mercato, è chiaro che possono agire sul processo inflazionistico, sul valore delle merci. In questo modo, le banche possono fare operazioni a tempi lunghi programmando nel tempo il valore che dovrà avere una determinata merce ad un certo momento, se deve costare poco o molto secondo la convenienza. Attraverso queste operazioni si mette in movimento il processo inflazionistico che tuttavia non sempre è controllabile. Premesso che queste operazioni sono dei mezzi fondamentali con cui le multinazionali riescono a rastrellare sul mercato enormi capitali, è conseguente che l'azione costante sulle monete e sulle merci determina una instabilità perenne delle valute poiché costante è la necessità di capitali da parte delle imprese. E la crisi che il mondo capitalista attraversa attualmente è dovuta in gran parte a questa pressione sul valore delle merci e delle monete e nella misura in cui l'inflazione favorisce la possibilità delle multinazionali di intervenire nelle varie situazioni potendo così riaffermare e confermare la possibilità programmatica di tali, imprese di fronte all'impotenza dei governi, possiamo facilmente supporre che stiamo assistendo ad un salto qualitativo delle multinazionali. Indipendentemente dagli effetti che l'inflazione ha sul potere acquisitivo dei salari, è chiaro che essa rientra interamente nella logica dell'accumulazione capitalistica la quale oggi si è arricchita di nuovi meccanismi che riescono ad eliminare i punti morti per l'estrazione di plusvalore. Il capitalismo non è più un ciclo produttivo che crea plusvalore in uno dei suoi punti, ma un processo produttivo che ha bisogno di plusvalore in ognuno dei momenti attraverso cui si realizza il ciclo completo e ciò soprattutto perchè il profitto non è solo un fine ma anche un mezzo senza il quale non c'è crescita; se non c'è crescita c'è la crisi, c'è la fine. Ed ecco che l'impresa capitalistica contemporanea agisce sulla, moneta, sulle merci e agisce naturalmente in termini di modificazione costante all'interno della composizione organica del capitale. Scrive Levinson: "Il grosso degli investimenti non va più ad aumentare la produzione e la capacità produttiva . . . ma viene piuttosto diretto verso l'automazione e le nuove tecnologie per sostituire lavoratori e ridurre i costi di manodopera. Si cercano margini di profitto superiori mediante la modernizzazione piuttosto che mediante l'aumento della produzione e delle vendite. Per quanto riguarda le vendite, sono le vendite future e non quelle attuali che contano. Già il 65% degli investimenti totali di capitale dell'Occidente è destinato ad una maggiore efficienza tecnologica e a soppiantare manodopera e solo il 35% ad aumentare la capacità di produzione, dalla quale, in ultima istanza, dipendono l'occupazione e i livelli di vita". Ed è qui che si concretizza l'attacco ai livelli occupazionali. Attacco tanto più necessario laddove le conflittualità dovute al lavoro sono una costante del ciclo produttivo.

Ma volendoci limitare alle considerazioni citate, per il futuro possiamo prevedere due ipotesi che non sono naturalmente alternative:
a) laddove il mercato per un determinato manufatto è stabilizzato, si impone la tendenza a restringere la quota del costo della manodopera operando verso la scelta dell'automazione;
b)laddove è necessario conquistare un mercato e affermarsi in esso, diventa più conveniente esportare capitali e tecnologia, giacché in questo modo è possibile giovarsi delle agevolazioni concesse sotto varie forme.

luglio75_multinazionali_3E' chiaro che sia nell'uno o nell'altro caso il risultato sarà la disoccupazione e la miseria; e sarà disoccupazione e miseria non solo per le masse proletarie dei paesi esportatori di capitale e di tecnologia, ma anche per i paesi importatori. Una commissione per lo sviluppo industriale creata dall'ONU, analizzando la situazione dell'America Latina ha stabilito che per soddisfare l'intero mercato latino-americano di prodotti provenienti dalla chimica si sarebbe creato un fabbisogno di manodopera corrispondente a 10.100 unità (20,3 milioni di ore) qualora si fosse proceduto alla creazione di impianti integrati. In mancanza di questi ultimi, il fabbisogno sarebbe stato di 49,1 milioni di ore, equivalenti a 24.600 posti di lavoro. Questi fatti vennero stabiliti nel corso degli anni ‘60, cioè in un periodo in cui la forza-lavoro dell'America Latina si accresceva annualmente di 2 milioni di unità per cui il progetto o era capace di occupare fra il 2,5 e l'1,5% dell'aumento della forza-lavoro della regione che si creava in un solo anno.

Il peggioramento della situazione appare ancora più chiaro quando si ricorda che gli esperti ritengono che solo la produzione chimica subirà una notevole crescita nei prossimi anni. Difatti, mentre si ritiene che la produzione dell'acciaio nel corso degli anni ‘70 aumenterà del 4,7% (ma è di questi giorni la proposta avanzata dalla CEE ai propri membri di ridurre la produzione dell'acciaio in misura media del 13%), si ritiene altrettanto che la produzione delle materie plastiche aumenterà del 15%. Nel 1980, secondo le stime, la produzione chimica raggiungerà il 15% della produzione mondiale totale, raddoppiando ogni 5 anni. Il 1980 vedrà autovetture costruite prevalentemente di plastica. Supponendo che per ogni autovettura saranno necessari 100 kg. di plastica e che la produzione delle stesse sarà pari a 20 milioni di unità all'anno, solo per l'industria automobilistica ci sarà un fabbisogno di 2 miliardi di kg. di plastica all'anno, il che significherà il dominio della plastica sull'industria automobilistica. Ma mentre si prevede questa violenta crescita dell'industria chimica e petrolchimica, non è possibile prevedere un corrispondente aumento delle unità lavorative. Anzi, poiché è abbastanza chiaro che gli investimenti saranno prevalentemente indirizzati verso l'industria chimica che avrà una funzione pilota nell'industria, e poiché è di pubblico dominio che nell'industria chimica e petrolchimica ad enormi investimenti corrispondono pochi posti di lavoro, è facile prevedere una progressiva espulsione relativa dal ciclo produttivo.

Porto Marghera è in questo senso abbastanza esplicativa. Qui si assiste ad un elevato grado di integrazione e dei diversi luglio75_multinazionali_6cicli produttivi in cui il settore chimico svolge una funzione portante. Difatti, il settore delle fibre sintetiche acquista dal settore petrolchimico; il metallurgico dal chimico e dal petrolchimico; il settore della chimica acquista allumina dal metallurgico, mentre dal settore petrolchimico acquista vari gas; il settore petrolchimico acquista allumina idrata dal settore metallurgico e da quello chimico, il quale fornisce anche ammoniaca, acido solforico e ferroleghe. Ora, questa dipendenza del ciclo produttivo dal settore chimico risponde ad una razionalizzazione del processo produttivo ed alla scelta dell'automazione. E il Petrolchimico 2 ne è un esempio chiarissimo e a tutti noto. Ma non mancano altri dati. La Montedison possiede negli USA la Novamont Corp. che produce polipropilene; il suo capitale sociale è di 20 miliardi di lire e il suofatturato lordo nel 1974 è stato di 21 miliardi di lire. Questo complesso occupa intorno alle 250 persone. La Moplefan proprietà italiana della Montedison, che produce film polipropilenico e PVC per imballaggi, ha un capitale sociale di 2 miliardi di lire con un fatturato lordo (1974) di 25 miliardi di lire; complessivamente in 3 unità produttive occupa 1.650 persone. Ecco, questi semplici dati possono offrirci, senza che ci sia la necessità di dilungarsi ad analizzarli, un quadro abbastanza attendibile del futuro che stanno programmando le multinazionali, le quali per intanto annunciano, nel mezzo della crisi, profitti di grandissime proporzioni. Il che, se da un lato ci fa credere sempre più al fatto che la crisi è una scelta del capitale, così come è avvenuto in altre circostanze, ci conferma che nel quadro capitalistico non c'è nessuna soluzione per i problemi delle masse lavoratrici.

Ma proprio in considerazione dei problemi su esposti, riteniamo che non ci sia sviluppo, nel senso di passaggio ad uno stadio superiore della produzione e della valorizzazione delle merci, al di fuori della logica di sviluppo delle multinazionali ed è proprio in questa direzione che bisogna vedere come fra tutte le ristrutturazioni, avverrà la ristrutturazione del comando.

La multinazionale non conosce confini e il mondo è il suo territorio di caccia e gli stati devono cercare di realizzarsi in termini funzioanli a questa realtà emergente.

luglio75_multinazionali_7Qualche tempo fa Fanfani ha sottolineato che la ripresa produttiva aveva nella legge sull'ordine pubblico il primo passo di un lungo cammino; e credo che in queste poche parole sia racchiuso tutto il senso dello stato moderno, ovvero quel senso che vede nello stato il controllo dei processi produttivi, dei processi attraverso i quali sarà creato il plusvalore e saranno mantenuti i rapporti di forza attualmente esistenti. E se in campo nazionale le varie polizie provvederanno a mantenere l'ordine, la NATO provvederà a mantenere gli equilibri esistenti, per cui data la situazione sarà necessario rafforzarla ristrutturando anch'essa. Così vogliono le multinazionali le quali, fra l'altro, avendo bilanci superiori a quelli di molti stati dispongono di mezzi enormi di imposizione, di repressione e di convinzione.

E' chiaro che il gioco del potere non si svolge più all'interno dei confini nazionali di un paese, ma in tutti i luoghi dove la multinazionale riuscirà in qualche modo ad avere degli interessi. I quali, indipendentemente dal fatto che siano di mercato, di produzione, di disporre di materia prima, richiederanno strumenti adeguati. Ed è questo il concetto di sviluppo delle multinazionali.

A questo progetto la classe operaia deve contrapporre i suoi bisogni sociali e biologici, deve contrapporre forme organizzate sul territorio a partire dal punto di vista che è territorio della classe operaia, quello spazio in cui essa realizza i propri bisogni. All'attacco sui prezzi degli alimenti, della luce, del gas, dei telefoni, dei trasporti, la classe operaia e la massa sfruttate devono rispondere con la creazione di nuclei urbani che sappiano imporre il punto di vista della funzione sociale dei servizi, che sappiano bloccare qualsiasi attacco al potere acquisitivo dei salari. Nelle fabbriche sarà necessario rimettere in moto tutta la problematica legata alle condizioni in cui si è costretti a lavorare.

Alla ristrutturazione del comando capitalista contrapporre l'organizzazione operaia del potere.

Lavoro Zero, numero unico in attesa di autorizzazione luglio 1975

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