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È la più grande fabbrica del mondo, una mostruosità che solo il giovane capitalismo cinese, incuneato nel contesto del capitalismo cadavere cui dà un po' di ossigeno, poteva escogitare. Impiega un milione e quattrocentomila salariati in 28 stabilimenti. Il più grande è quello di Shenzhen vicino a Hong Kong, con 240.000 lavoratori. La proprietà giuridica è taiwanese, i lavoratori sono cinesi continentali, i committenti sono i maggiori gruppi industriali multinazionali, il rentier è lo stato cinese, che intasca la tangente sullo sfruttamento degli operai locali. Come in altre fabbriche-città sparse per il mondo, oltre ai capannoni dove si produce, vi sono mense, dormitori, campi di calcio, internet cafè, infermerie, biblioteche, forse asili nido, tutto ciò che serve a contrapporre un minimo di tempo di vita all'abbondante tempo di lavoro (flessibile, ovviamente, con straordinari… ordinari). A differenza di altre fabbriche cinesi, qui non si indossa una divisa ma si veste casual, come è consono all'età media dei lavoratori, spesso ragazzi appena usciti dalla scuola. In regime capitalistico anche le fabbriche dei padroni più illuminati non possono essere altro che un misto di officina, caserma, falansterio, prigione e villaggio. Per rimanere in Italia, Rossi, Leumann, Olivetti, avevano teorizzato e realizzato la fabbrica diffusa, nella quale officine, campi e spazi civili si compenetravano a formare un ambiente in cui l'operaio potesse produrre serenamente e abbondantemente.

Una fabbrica con 240.000 operai concentrati in un unico spazio è altra cosa rispetto ai vecchi falansteri paternalistici. Solo a leggerne la descrizione e a vederne le immagini, l'ambiente dà le allucinazioni. E risulta verosimile la storia dei suicidi. Ma sembra che questa non sia invece che una leggenda inventata di sana pianta dai perfidi media stranieri: una commissione d'inchiesta avrebbe appurato che i suicidi sono molti solo perché numeroso è il campionario umano su cui cade la statistica; la media sarebbe inferiore a quella dell'intera Cina (14 su 100.000 abitanti), che è comunque inferiore a quella americana (17 su 100.000).

La Foxconn si è ripromessa di costituire la fabbrica delle fabbriche del mondo col favore di un alto saggio di profitto (dovuto al drenaggio di plusvalore assoluto), e di un mix fra ampio tempo di lavoro, bassi salari e una immensa disponibilità di forza-lavoro. Questi fattori si aggiungono alle economie di scala negli approvvigionamenti, dato che molte materie prime e semilavorati sono comuni a diversi tipi di prodotto forniti a diverse aziende committenti. Altro vantaggio è dovuto al fatto che l'azienda si è sviluppata di recente, cosa che le permette di utilizzare al massimo le tecnologie di ultima generazione. Tuttavia, nonostante questi vantaggi, l'espansione fino alle attuali dimensioni abnormi ha comportato un impatto con la legge dei rendimenti decrescenti. In parte il problema è stato aggirato disaggregando l'insieme in 28 stabilimenti, che rimangono comunque giganteschi anche così. Come risultato la produttività non è delle migliori, anche se lo sfruttamento, calcolato in plus-lavoro, è pesantissimo. Il saggio di profitto è sceso negli ultimi anni dal 6 al 2%. Naturalmente gli azionisti si accontentano di questa bassa percentuale in cambio di una massa crescente, quella che va ad incidere sulla ricchezza personale effettiva, ma la tendenza non può continuare.

Così, tenendo conto della crisi, del costo dei trasporti e soprattutto del fatto che la quota della forza-lavoro sul prezzo di un prodotto moderno è sempre più bassa, la Foxconn progetta di aprire altri stabilimenti, questa volta in Brasile, Messico e Stati Uniti. In pratica ci sarebbe un mega-progetto per raddoppiare le dimensioni dell'azienda. Ma dove trovare manodopera disponibile come quella cinese e soprattutto allo stesso prezzo? Non certo negli Stati Uniti e comunque nemmeno negli altri paesi delle Americhe. La risposta era già comparsa sui giornali tempo fa, ma senza il contesto non era comprensibile: la Foxconn costruirà nei propri stabilimenti cinesi un milione di robot "nel tentativo di eliminare le attività ripetitive e pervenire a fabbriche completamente automatizzate". Interessante. Una fabbrica senza operai? Viene in mente il Giappone, quando trent'anni fa vantava il più alto numero di robot del mondo. Ed è da trent'anni in crisi comatosa.

n+1, rivista 33, aprile 2013

[tratto da www.quinterna.org]