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LA QUESTIONE COSIDDETTA ECOLOGICA. ALCUNE OSSERVAZIONI SULLA NECESSITA' DI ASTRAZIONE PER CAPIRE I PROBLEMI CONCRETI E NON FINIRE NEL CONCRETISMO, NELLA IMPROVVISAZIONE E NEL DILETTANTISMO.

A seguito delle continue discussioni e preoccupazioni, causate dalla situazione contingente esplosa con la dispersione all'aria di circa una tonnellata di CVM dal reparto CV22 di Porto Marghera, crediamo possano essere utili le seguenti considerazioni.

La realizzazione di "investimenti anti-inquinamento", all'interno di un modo di produzione e di circolazione interamente dominato dal Capitale (non lo si dimentichi nemmeno per un istante), è possibile qualora esso indirizzi una parte di sé stesso D alla produzione di merci M atte alla depurazione o alla prevenzione di fattori inquinanti: classico processo, dunque, che viene messo in moto alla sola condizione di potersi completare in D' (D + plusvalore), cioè di valorizzarsi. Al Capitale non interessa se il plusvalore è ottenuto uccidendo uomini oppure "resuscitando" gli stessi per poi poterli riuccidere. In fondo, i disastri ambientali sono sempre stati una manna per questo modo di produzione, perché, in tal modo, gli viene concesso di intervenire per riparare gli effetti di tali disastri, da esso stesso provocati, riproponendo le condizioni per nuovi disastri futuri, in una serie ciclica dove all'omicidio dei vivi si alterna e si sovrappone costantemente l'omicidio dei morti [29] Se la manutenzione "ordinaria" dei manufatti presenti in un certo ambiente costa, poniamo, un milione all'anno per ogni chilometro quadro, mentre dopo una catastrofe l'intervento ricostruttivo costa, poniamo, un miliardo a chilometro, è ovvio che al capitale conviene la catastrofe: per ottenere la stessa valorizzazione con la manutenzione, a un milione all'anno occorrerebbero mille anni!

Gli "investimenti anti-inquinamento" non hanno dunque niente di umano all'interno di questa società.

Si obietterà, a buona ragione, che non è tanto importante che il capitale si umanizzi o meno, quanto che esso si attivi positivamente a favore della situazione di miglioramento dell'ambiente (terra, acqua ed aria) nel quale viviamo, anche se ciò viene fatto da questo stesso capitale a proprio fine e beneficio. Da parte nostra insistiamo sul fatto che si tratta comunque di un falso obbiettivo, perché la velocità di valorizzazione di determinati settori del capitale, perseguita con gli investimenti anti-inquinamento, sarà sempre di gran lunga inferiore rispetto alla necessità di valorizzazione del capitale complessivo, il quale può realizzarsi solamente con distruzioni sempre maggiori.

E qui potremmo collocare la fatidica domanda: siamo dunque indifferenti al fatto di respirare, ad es., vapori di CVM o di qualsiasi altro tossico o cancerogeno? Oppure, dobbiamo rimanere indifferenti al fatto che le nostre case vengano distrutte in seguito ad un bombardamento aereo in una possibile guerra? E' sicuro che, come non vogliamo respirare vapori di cloruro di vinile, così pretendiamo di avere una casa.

Ed il capitale? E' chiaro che esso è "generoso", in quanto si colloca al di sopra dell'angusta visione individuale: esso desidera ricostruire le case di tutti (ed ancora di più) senza porsi il problema di "chi pagherà". Esso pone una sola condizione: che la messa in moto di capitale D produca tante case M e che da questa produzione esca una quantità di plusvalore tale che il ciclo si completi in D–M–D'.

Si veda, a tal proposito, il problema delle "celle a mercurio" presenti al TDI del Petrolchimico: fin dagli anni '70 esiste la pressante richiesta di una loro sostituzione con le "celle a membrana", al fine di evitare danni alla salute dei lavoratori per la presenza di grosse quantità di mercurio. L'azienda che produce sia le celle "a mercurio" che quelle "a membrana" è la stessa De Nora: una volta posto il problema della nocività causata dalle grosse concentrazioni di fanghi di mercurio, essa ha trovato subito la soluzione, anche se i costi – in questo caso per Enichem - diventano sicuramente maggiori. Alla De Nora potrebbe stare a cuore, in questo caso, la salute dei lavoratori, perché un movimento in questa direzione si configurerebbe, dal suo punto di vista, come un movimento per la valorizzazione del proprio capitale.

Prima domanda: dovremmo rimanere indifferenti al problema, per non "fare il gioco del Capitale"? Risposta: no, sicuramente; in questo caso dobbiamo pretendere l'eliminazione delle "celle a mercurio", come pretendiamo l'intervento dei muratori di un'azienda edile, qualora il tetto di una sala quadri minacci di caderci in testa!

Seconda domanda: dobbiamo limitarci a condannare Enichem ed a chiudere il problema all'interno di un angusto aspetto tecnico relativo al rapporto fra "celle a mercurio" e "celle a membrana", oppure dobbiamo allargare il problema e chiederci quali nuovi possibili danni sta combinando la De Nora (in questo specifico caso) nella produzione di questa soluzione "pro-lavoratori"?

Terza domanda: dobbiamo vietarci la possibile denuncia dell'eco-businnes, dell'industria della salute, di un determinato settore della produzione e riproduzione di capitale, per il solo fatto che esso va contro un settore diverso - di aspetto diverso – della stessa produzione e riproduzione del medesimo capitale? Dobbiamo a tutti i costi vietarci (magari per "non fare il gioco del nemico") di ricercare il comune denominatore fra Enichem e De Nora (e fra queste e qualsiasi altra azienda)?

Dobbiamo a tutti i costi adoperarci per tagliare quel tenue filo che ancora ci lega al nostro esclusivo programma di classe, per il timore che l'eccessivo ampliamento dell'orizzonte rischi di portarci ad affrontare non tanto uno ad uno i problemi che di volta in volta vengono a presentarsi (in una serie infinita, quindi irrisolvibile), quanto il problema più generale del superamento dell'attuale cancerogena società?

Lo stesso discorso vale per il problema del CVM (come per la produzione a livello industriale di un qualsiasi cancerogeno), per le "celle a membrana" in alternativa alle "celle a mercurio"; così come per una eventuale alluvione del Po, per "salvare Venezia", ecc. ecc..

Ripieghiamo su formule astratte, fuggendo la "concretezza" dei problemi reali?

Capita, il più delle volte, che per affrontare i problemi in modo reale, occorra parlarne in modo astratto, per poterne cogliere l'essenziale.

Se facciamo l'esempio del CV22 del Petrolchimico (si cambi pure reparto e prodotto, il discorso di fondo rimane invariato), osserviamo che ogni operatore conosce bene il processo che dalla distillazione porta il DCE (dicloroetano) al cracking [30] per ottenere CVM; conosce pure bene il simbolo DCE che indica 100% di dicloroetano, come sa benissimo che mai uscirà dalla distillazione DCE al 100%: le analisi di laboratorio potranno parlare, ad es., di purezza al 99,65%, 99,38%, 99,72, ecc., con un continuo movimento ondulatorio causato dalle generali condizioni del processo di distillazione. Ora, se per avviare il cracking un qualsiasi operatore dovesse conoscere concretamente cosa esce in quel preciso momento dalla distillazione… il cracking non partirebbe mai. Per avviare fattivamente questa fase del processo, occorre essere concretamente astratti: occorre, cioè, operare un'astrazione eliminando concettualmente il campo dalle sempre presenti impurità (0,35%, 0,62%, 0,28%, ecc.); in altre parole, occorre impadronirsi di quella compressione linguistica (DCE) che racchiude, nelle sue tre lettere, la breve storia di tutte le sue componenti chimiche, fisiche ed umane.

Quando il nostro vecchio operatore ordinerà di inserire quella certa valvola di alimentazione, operazione che negli schemi di processo significa chiedere di alimentare dalla distillazione al cracking DCE "puro", un giovane operaio potrebbe rispondergli un po' ingenuamente: "dobbiamo essere concreti: non esiste dicloroetano puro"; al che, il nostro operatore potrebbe rispondere deciso: "vai ad inserire quella regolatrice e non rompere le scatole!".

Per chi ha lavorato per anni alla conduzione di un tale impianto (o di qualsiasi altro impianto complesso), diventa naturale operare queste necessarie schematizzazioni. Chi ha vissuto per anni all'interno di un tale processo di produzione, nelle compressioni linguistiche (DCE, CVM, ecc.), vede immediatamente un insieme di colonne di distillazione, serbatoi, grovigli di tubi, regolatrici, ribollitori, condensatori, pompe, il tutto con le sue "appendici umane" (per il capitale). Egli sa attribuire funzioni e nomi precisi a tutto ciò. Ad esempio, per qualsiasi lavoratore di tale reparto la compressione linguistica DCE-CVM-OXI non è una cosa astratta, ma la rappresentazione precisa di un reale impianto di produzione (identificato con una sigla senza significato per la maggior parte delle persone) che può abbracciare con un solo sguardo, cogliendo, nello stesso tempo il succedersi dei vari momenti della sua vita produttiva, assieme a quella degli altri lavoratori che hanno vissuto nelle stesse condizioni.

E gli viene talmente naturale parlare in modo concretamente astratto di questo impianto, che non riflette mai sul come ne parla.

Anche la formuletta D–M–D' è un'astrazione necessaria a condensare la vita reale che ci circonda. Però, a differenza dell'impianto di cui si parla, ci è impossibile abbracciare col nostro quotidiano sguardo l'insieme e la complessità non pura di questa vita reale. Ed allora ci rimangono solo due strade: a) buttare via la nostra formula perché non corrispondente – con la sua purezza – alla non pura vita reale; insomma: diventare immediatisticamente concreti; b) far astrazione dalle impurità, dagli elementi non portanti della vita reale per legare in un insieme dinamico i suoi elementi essenziali, portanti.

Per quanto ci riguarda, non abbiamo dubbi sulla volontà di seguire la seconda strada: inizialmente "sederci sulla Luna" e da lì osservare – spazialmente e storicamente – la vita reale che si svolge sulla Terra; tracciare uno schema d'insieme (es. D–M–D') all'interno del quale sia possibile collocare correttamente la complessità dei fenomeni più o meno locali e temporali: dal crollo del muro di Berlino alla "guerra delle banane" fra USA ed UE; dai megaincendi delle foreste del Borneo alla progressiva deforestazione della Amazzonia; dagli investimenti di Capitale senza specificazione, agli investimenti di Capitale anti-inquinamento, ecc. ecc..

Siamo stati ancora troppo generici, troppo fumosi?

Parliamo allora di come si potrebbe disinquinare "concretamente" questa cloaca che è l'alto-Adriatico (limitarsi a parlare del disinquinamente della laguna di Venezia, non è demagogia, ma semplice "bambinesca ingenuità"), dimenticando per un momento che l'Adriatico è legato al Mediterraneo, ed avviando un ipotetico piano per l'installazione di enormi depuratori sulle foci dei maggiori fiumi: Isonzo, Tagliamento, Piave, Brenta, Adige e Po. Si tratterebbe indubbiamente di un'opera colossale, che richiederebbe il coordinamento di tutto ciò che succede a monte dei depuratori in tutta l'area idrogeologica padana, ecc. Vi sarebbero inoltre notevoli ripercussioni sull'attività produttiva in genere, con lo sviluppo dell'industria siderurgica, di quella meccanica, dei materiali elettrici, della chimica, dei trasporti, ecc. con relativo sviluppo delle emissioni inquinanti specifiche di queste nuove attività, che dovrebbe essere tenuto presente nel progetto di depurazione, il quale dovrebbe contemplare la possibilità di potenziamento futuro dei depuratori, la rinnovata ripercussione a monte (rinnovato sviluppo industriale, rinnovato sviluppo dei fattori inquinanti, ecc.), in un circolo vizioso che porterebbe lo stato M (merci) presente nella Pianura padana allo stato M+1, con immediata ripercussione sullo stato dell'adiacente Adriatico, anch'esso proiettato al livello di M+1 (merda +1) [31].

Sforziamoci di essere ottimisti per un momento e - facendo affidamento sull'unica forza sociale e politica (il proletariato con la sua dittatura di classe... una volta che abbiano esaurito i loro tentativi sia la Banca Mondiale che l'Onnipotente, ovviamente) che, a livello non solo padano, potesse mettere in atto un reale piano di disinquinamento delle acque, della terra e dell'acqua. Immaginiamo che, a quanto detto sopra, si aggiunga un vasto programma di costruzione di depuratori per ogni singola fase produttiva. Questo rappresenterebbe sicuramente un enorme investimento, anche se in questo caso non a base di capitale (nello Stato del proletariato, non è il capitale la maggior forza propulsiva) bensì di energia sociale, forza produttiva misurabile quantitativamente in un concreto sviluppo ulteriore della siderurgia, della chimica, della meccanica, dei trasporti, ecc., insomma, della mineralizzazione della vita organica. Se si intendesse per dittatura proletaria una cosa del genere, non si potrebbe forse parlare di sviluppo del capitale nel senso comune del termine, ma certamente ci troveremmo di fronte ad una specie di sviluppo "proletario" della produzione per la produzione, anche se non gli attribuissimo il risultato finale di un aumento dell'inquinamento.

Evidentemente, c'è qualcosa che non quadra.

Poste così le cose, l'intera pianura Padana diventerebbe un'enorme fabbrica ed il complesso padano-adriatico si avvierebbe inevitabilmente dalla situazione M+1 a quella M+2 (nelle due accezioni: merce e merda). Meglio lasciar fare al capitale che con i suoi ciclici salassi (crisi) almeno si limiterebbe a passare da M+1 a M+1,5.

Si ripropone, a questo punto, l'ingenua (a suo tempo, qualcuno avrebbe scritto: fessa, quando non falsa) domanda: ma allora non proponiamo niente "in concreto"? E' sicuro che diamo delle risposte "in concreto". Anzi, ad essere precisi, non abbiamo bisogno di inventare chissà quali risposte, poiché esse sono già state date nei primi anni '50 da quel piccolo movimento che rappresentava la continuità con la Sinistra Comunista: movimento che, grazie al proprio "schematismo dottrinario" ed "astrattismo" (sempre esplicitamente rivendicati!) rispetto alle particolarità della vita reale, riusciva a condensare in estremamente chiare formulazioni non solo le risposte che di volta in volta abbisognavano, ma soprattutto la ben più importante chiave di lettura per le domande stesse, senza la quale nessuna risposta sarebbe stata possibile.

In piena coerenza col Manifesto di Marx-Engels (la società attuale possiede troppa ricchezza, troppa industria e troppo commercio) viene implicitamente esclusa, per il movimento comunista, ogni possibilità che qualsiasi piano di "investimenti anti-inquinamento" possa risolvere il problema generale della nocività presente nei posti di lavoro [32]. E questo perché la soluzione di tale problema richiederebbe non tanto maggior investimento quanto

"disinvestimento dei capitali, ossia destinazione di una parte assai minore del prodotto a beni strumentali e non di consumo" [33]

Dovremmo dunque sforzarci - in quanto classe – di entrare nell'ottica che la circolazione dev'essere circolazione di bisogni umani e non di merci. Vedremo così subito, tanto per fare un esempio, la concreta possibilità di un ridimensionamento (disinvestimento) del "problema" trasporti, perché diverrà subito chiara l'antitesi fra mezzo di trasporto sociale e mezzo individuale, fra ferrovia e trasporto su gomma, fra terra libera e terra cementarmatificata da una rete stradale assurda. Parlando di bisogni umani vediamo che è possibile ridurre al minimo l'industria cementiera e come lo stesso disinvestimento sia possibile nell'industria delle automobili (comincia così a disinquinarsi l'aria delle città, senza bisogno di particolari investimenti). La stessa industria metallurgica comincia a ridimensionarsi: meno vetture individuali significa minor utilizzo di materiali ferrosi e, di pari passo, meno materiali plastici (industria chimica), meno scarichi nelle acque, nella terra e nell'aria. Ci ammaleremmo di meno, con una conseguente drastica riduzione della produzione di medicinali, se non sempre dannosi, spesso assolutamente inutili. Insomma, con un'organizzazione economica e sociale mirante ai reali bisogni umani, lentamente non vi sarebbe più bisogno delle grandi concentrazioni industriali (funzionali al capitale) e, dunque, comincerebbero a ridimensionarsi le grandi concentrazioni urbane (le odierne megalopoli).

Ecc., ecc., ecc..

Come si vede, non abbiamo compiuto voli extragalattici: abbiamo cercato di affrontare il problema concreto nella sua concretezza, al fine di evitare di "spaventare" chicchessia. Sicuramente ci si potrebbe dilungare, e questo permetterebbe esempi migliori, precisazioni ulteriori, sulle quali ora non ci soffermiamo. La cosa fondamentale da capire, comunque, è che problemi di questo tipo li possiamo affrontare "concretamente" solo se abbiamo la capacità di porli all'interno di uno schema generale, quindi astratto, che riproduce la società non come la vede ognuno di noi, ma in modo che ci sia permessa una sua lettura complessiva, depurata dal "rumore" (disturbo, disordine) come dicono gli informatici; una volta trovato l'ordine con cui analizzare i fenomeni, abbiamo anche la chiave di lettura dello stesso rumore: o particolarità specifica, o fatto "concreto", se si preferisce.

Mai nessun ecologista e nessun immediatista potrà fare in maniera coerente questo tipo di lavoro, perché, per poterlo fare, bisognerebbe sapersi proiettare fuori dal tran tran delle categorie ideologiche capitalistiche, nonché riconoscere che tutta una serie di strumenti di azione immediata messi a disposizione da questa società classista, sono utili esclusivamente ad essa. L'ecologia, che per noi sarà terreno fondamentale di ricerca ed applicazione di energia sociale, è invece oggi terreno prediletto per la chiacchiera a ruota libera di borghesi teneri e nobili démodés. Essi sono disposti a rivolgersi anche a settori del proletariato, ma solamente perché non è possibile compartimentare l'aria e l'acqua che pure loro respirano e bevono; così come non possono riavere con le sole proprie forze quello zeffirelliano paesaggio che una volta si potevano godere dall'attico.

Senza una visione generale di ciò che significa "ecologia" finiremmo di fare qualcosa di immediatisticamente concreto, come guidare squadre di proletari a pulire (gratis) i fossi, i boschi e le spiagge pieni di monnezza, paesaggi che tanto disturbano l'occhio estetico del borghese, anzi del nobile, visto che i massimi patrocinatori dei vari WWF sono i duchi di Edimburgo, i Bernardi d'Olanda, le donne Giulie Marie Mozzoni Crespi e via dicendo.

Senza una sufficiente capacità di astrazione si finisce per definire "concreto" solo ciò che serve a tamponare con dei miseri cerotti i guai della società borghese.

Ai lavoratori del Petrolchimico (il discorso rimane valido per qualsiasi altra fabbrica), che di fronte agli ecologisti si arroccano nell'operaistica formula "difesa del posto di lavoro", bisogna far comprendere i limiti di tale formula.

E chi il posto di lavoro non ce l'ha? Dobbiamo chiedere investimenti produttivi di qualche tipo?

Posti di lavoro ce ne sono anche troppi, perché sappiamo che, se fosse lasciato libero campo allo sviluppo delle forze produttive, molti posti di lavoro che oggi rappresentano una specie di ammortizzatore sociale sarebbero spazzati via. La realtà mostra che i posti di lavoro non ci sono perché la società attuale possiede troppa ricchezza, troppa industria, troppo commercio (Marx!) in rapporto ad un mercato paludoso e ad una domanda solvibile che non riesce ad assorbire quanto viene prodotto; non si può "chiedere" che si aumenti ricchezza, industria e commercio (quindi che si aumentino i fattori di sovrapproduzione e di crisi!) al solo fine di aumentare i posti di lavoro. Non si può chiedere che si aumentino i posti di lavoro per ottenere in tal modo una sovrapproduzione di posti di lavoro: è una contraddizione insuperabile.

Il posto di lavoro non è solo un'entità spaziale, ma insieme temporale (es., il posto di lavoro per un tempo di 8 ore). Questa unificazione dello spazio e del tempo in un'unica dimensione spazio-temporale permette di porre l'uguaglianza "posto di lavoro" = "luogo in cui svolgiamo la nostra attività per un tempo di 8 ore"; ne consegue che noi (questo "noi" è puramente esemplificativo) difendiamo non solo il nostro spazio fisico di lavoro, ma anche il nostro tempo di lavoro (8 ore).

Su queste basi, non vi potrà mai essere unità d'intenti e tantomeno di lotta, fra noi ed i disoccupati.

Non si tratta dunque di difendere a tutti i costi un qualsiasi posto di lavoro (magari condannato per sempre dallo sviluppo sociale), bensì di rivendicare la possibilità di una vita dignitosa per tutti, come rivendicavano gli operai "analfabeti" degli anni '20 (salario garantito ai disoccupati in base alle necessità delle varie famiglie): cosa immensamente difficile da pensare in questo fine millennio, dove la consapevolezza dei propri interessi ha lasciato il posto ad una marmellata di luoghi comuni ingigantiti dal rincoglionimento televisivo.

Accanto a ciò bisogna rivendicare una drastica riduzione dell'orario di lavoro, per es. da 8 a 4 ore giornaliere. Se questo può sembrare una richiesta di "scambio" fra orario e posti di lavoro, il significato diventa inequivocabile una volta che unifichiamo le due richieste, perché chiunque voglia legarsi al filo storico della autonoma esperienza di classe

"difende la situazione futura di un ridotto tempo di lavoro a fini utili alla vita, e lavora in funzione di quel risultato dell'avvenire, facendo leva su tutti gli sviluppi reali. Quella conquista, che sembra miseramente espressa in ore e ridotta a un conteggio materiale, rappresenta una gigantesca vittoria, la massima possibile, rispetto alla necessità che tutti ci schiavizza e trascina".[34]

In coerenza con il nostro modo di porre la "questione sindacale", non possiamo dunque chiedere la "difesa del posto di lavoro": non vedevamo l'ora che le macchine potessero prendere il nostro posto e lavorare per noi! Ci sono in giro sindacalisti che preferiscono far scendere i minatori a crepare in miniere improduttive in nome della "difesa del posto di lavoro", piuttosto di chiudere quelle tombe per sempre.

Le rivendicazioni degli operai che se ne fregano di rientrare nella logica dei problemi capitalistici da risolvere (e sono le uniche ad essere interessanti per noi) hanno il vantaggio di unificare positivamente occupati e disoccupati, di abituare il proletariato allo scontro con l'avversario, a non cadere nel tranello del solito "siamo tutti nella stessa barca", ecc..

Tutto ciò è irrealistico, utopistico ed astratto? E' vero che non abbiamo la forza, per ora e chissà per quanto tempo, di intraprendere una simile strada, ma non esistono altre strade se non quella di obbedire supinamente agli interessi del Capitale! Una rivendicazione che sia fondata sugli "investimenti anti-nocività ed anti-inquinamento", per il solo motivo che la situazione ti mette fra i piedi quello specifico problema (tralasciando l'altro milione di problemi simili) può essere certamente una strada, una "realistica linea di difesa", come dicono molti sindacalisti ed immediatisti, ma solo per quegli operai che, chiusi nel ghetto della loro fabbrica, dimenticano di far parte di una classe ben definita e di agire in una società che vive esclusivamente sul lavoro salariato.

Si trattasse esclusivamente di una colonna di distillazione che disperde all'aria del gas cancerogeno, il problema sarebbe facile da risolvere; ma qui siamo di fronte al dis-funzionamento di una società intera ed a questo bisogna rispondere.

In fondo, gli operai che si occupano solo del proprio orticello (della propria fabbrica, se non addirittura del proprio reparto) fanno come quei motoristi che, nella situazione in cui la nave sta per essere affondata dalla tempesta, si illudono di poter salvare la sala-macchine e la propria vita, chiudendosi all'interno di essa e bloccando ben bene i boccaporti, affinché nulla vi possa penetrare.

A proposito della distruzione di tempo di lavoro operata dallo sviluppo delle forze produttive (e quindi anche di posti di lavoro nelle fabbriche capitalistiche): fino a quando i lavoratori dell'EVC di Porto Marghera potranno essere rassicurati, sia pure sotto la bandiera di "pane e monomero"? Se nei prossimi anni, com'è prevedibile in base a recenti comunicati aziendali, nuovi processi produttivi renderanno antieconomico il vecchio impianto CV22, non basteranno di certo le giaculatorie sul "posto di lavoro non si tocca" e le roboanti frasi sulla sua "intransigente difesa". I posti di lavoro a Porto Marghera sono "toccati" ben vigorosamente da quella stessa EVC che dovrebbe garantirli con la sua sopravvivenza. L'impianto-pilota di Wilhelmshaven ha già dimostrato la possibilità di saltare il ciclo dell'etilene e la produzione di dicloroetano, partendo direttamente dall'etano, che costa tre volte di meno. La sua capacità potenziale è oggi di 1.000 tonnellate annue. Se tutto ciò sarà confermato, le azioni di EVC si preparano a compiere un bel salto sul mercato, mentre i lavoratori faranno un bel salto… dal mercato! (Vedere in appendice il riassunto dell'accordo EVC-Bechtel per il progetto complessivo)

Note

[29] E' anche il titolo di un articolo contenuto nel libro Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, edito dai Quaderni internazionalisti.

[30] Processo di rottura, per mezzo di alte temperature, di molecole di idrocarburi per ottenerne dei derivati; nel caso specifico si parla del cracking del DCE per ottenere Cloruro di Vinile.

[31] Circoli viziosi di questo genere sono presi in considerazione nell'ormai storico rapporto Meadows sui Limiti dello sviluppo (ed. EST Mondadori), ma già Marx ne individuò un esempio nel sistema di macchine a vapore che inquinava l'acqua nel momento stesso in cui questa gli serviva pura.

[32] I lavoratori, presenti in un qualsiasi ciclo produttivo, non chiederanno mai – di fronte a questo o quel problema immediato (es. fuoriuscita di prodotto da una pompa o da una valvola) – un generale "piano di investimenti anti-inquinamento", bensì l'immediata riparazione o sostituzione della pompa e della valvola.

[33] Da Il programma rivoluzionario immediato, Riunione di Forlì, del 28 dicembre 1952. Ora in Per l'organica sistemazione dei principi comunisti, Edizioni Quaderni Internazionalisti.

[34] Per l'organica… cit., Riunione di Genova, aprile 1953.