1. LA MINORANZA RUMOROSA
Sono molti quelli che tentano di farci credere che ciascu no di noi è solo e che comunque si è troppo pochi per abbattere il sistema di fabbrica. In Italia, "su 56 milioni solo 8 milioni di cittadini tra operai e tecnici contribuiscono al processo produttivo, mentre si è gonfiata la occupazione nei servizi. Gravano oggi pesantemente sui costi d'impresa non solo il costo del lavoro, su cui pesa l'onere dei servizi pubblici e assistenziali tanto costosi quanto inefficienti, ma anche la struttura del credito..." (1) ...Non dobbiamo mai dimenticare che agli operai in fabbrica questo discorso della "minoranza che lavora" e che mantiene tutti viene riproposto di continuo oltre che dai capi — come necessaria giustificazione della loro ideologia che pone la tecnica di produzione come gerarchia oggettiva sugli uomini — anche da partiti e sindacati che individuano NELLA GERARCHIA DEL LAVORO LA RAPPRESENTAZIONE POLITICA DEL LORO POTERE.
La gerarchia non è un fine in sé di natura organizzativa, ma uno strumento del capitale per dividere e polarizzare ad estremi opposti sezioni di classe operaia che cercano la propria unificazione politica. E siamo solo alla descrizione iniziale e parziale della contraddizione principale del sistema basato sul lavoro (salariato e non). Il processo lavorativo comandato dal capitale contrasta ogni attività creativa in quanto vuole trasformarla in lavoro sottoposto alla spinta del profitto. Ora è abbastanza scontato — e le lotte ce l'hanno insegnato — che il fattore chiave dell'espansione capitalistica non è l'allargamento di scala della produzione capitalistica ma la disponibilità degli sfruttati alla cooperazione sociale. Su questa disponibilità il capitale è riuscito ad utilizzare una serie di meccanismi sociali dai quali la classe operaia non ha ancora trovato un'uscita corrispondente all'aumentata cooperazione sociale(2). Contro questo FURTO DELLA DISPONIBILITA' ALLA COOPERAZIONE SOCIALE si è sviluppata una lunga lotta per il riconoscimento della preminenza del valore ceduto sotto forma di lavoro rispetto al valore assegnato dal capitalista alla proprietà dei mezzi di produzione, al lavoro morto di cui si è appropriato. Da questo punto di vista la lotta della classe operaia COME CLASSE PER SE' si è ormai allargata alla società al punto da estendersi fuori delle categorie e delle griglie del capitale(3). Infatti possiamo dire che strati sempre più vasti della popolazione hanno assorbito ed arricchito i metodi di lotta dell'operaio produttivo e salariato per farsi riconoscere come agenti del processo di valorizzazione del capitale in modo da ottenerne una contropartita sociale in termini di salario contrariamente alle aspettative del capitale ed alla collocazione che questo imponeva o tentava di imporre. Questo atteggiamento, non più riferibile ad un soggetto definito dal suo rapporto con il lavoro ma forse dal suo rapporto CONTRO il lavoro ci pare che vada privilegiato anche rispetto alla capacità fin qui dimostrata da alcuni settori del capitale di redistribuire i nuovi costi attraverso quelli che comunemente chiamiamo processi di ristrutturazione. Certo, rimangono almeno in parte, i pericoli descritti da Marx quando afferma che qualsiasi attività tendenzialmente cade sotto lo impero delle leggi che regolano il prezzo del lavoro salariato(4). Ma, girando il problema, va notato che i capitalisti hanno avuto un atteggiamento omogeneo a livello internazionale — ma pur sempre di risposta al comportamento dei proletari. Ricordiamoci a questo punto di tutto quello che sappiamo, e che i capitalisti cercano semplicemente di cancellare con la violenza dalla memoria dei proletari: dalla distruzione della vita alla distruzione dell'ambiente, dalla distruzione delle lotte alla distruzione delle merci, dalla distruzione della conoscenza alla falsificazione sistematica di tutti quei dati che rovinerebbero la "realtà" dei sistemi fondati sul lavoro salariato. Insomma siamo in tanti ed abbiamo una nostra storia; e la coscienza di essere in tanti, di venire da lontano e di essere sfruttati ci viene da lotte secolari, incessanti, quotidiane che abbiamo portato e portiamo avanti(5). Ma siamo — ed è bene ripeterlo e lo dimostreremo sempre più chiaramente nei fatti — non una minoranza rumorosa ma una maggioranza erogatrice di merci, capace di produrre beni e servizi dei quali non possiamo godere che in minima parte.
Riprendiamo qui sommariamente il discorso degli "8 milioni che contribuiscono al processo produttivo" cercando di leggere alcuni dati elaborati dallo stato togliendo la maschera ad uno dei suoi organi più ubbidienti, il famigerato Istituto Centrale di Statistica, sottovalutato laboratorio antiproletario di manipolazione della realtà italiana.
Il metodo per il calcolo delle forze di lavoro e degli occupati è un primo strumento per falsare la realtà. Infatti si assumono tuttora come oggettivi i seguenti criteri:
a) la popolazione attiva è costituita 1) dai censiti in età da 14 anni in poi che alla data del censimento risultavano esercitare una professione, arte o mestiere in proprio o alle dipendenze altrui, ivi compresi i coadiuvanti; 2) dai censiti in età dai 14 anni in poi che alla data del censimento risultavano disoccupati, cioè da coloro che, avendo perduto una precedente occupazione, erano alla ricerca di una nuova occupazione; 3) da altre categorie di censiti in età da 14 anni in poi temporaneamente impediti di esercitare una professione, arte o mestiere; 4) dai censiti in età da 14 anni in poi in cerca di prima occupazione.
b) la popolazione non attiva è costituita l) dai censiti in condizione non professionale, in quanto scolari, donne che badano alle CURE domestiche, persone ritirate dal lavoro per raggiunti limiti di età o per altri motivi, propietari, benestanti, infermi o ricoverati in luoghi di cura o di assistenza a tempo indeterminato, inabili permanenti, detenuti condannati a pene di 5 anni o più, persone viventi a carico della pubblica beneficenza; 2) tutti i bambini e ragazzi fino ai 14 anni non altrove classificati (6).
Bello il trucco, peccato che si veda: mettere insieme il lavoro non pagato delle casalinghe con il godi—godi di proprietari e benestanti è come dire che non c'è differenza tra sfruttati e sfruttatori. Per lo stato le "cure domestiche" non sono lavoro ma, appunto, solo cure, cioè SPESE, e spese a carico dei "veri produttori", occupati — tra l'altro — a riprodursi come forza-lavoro. Così gli studenti, ricoverati o "assistiti" a tempo indeterminato — chi non ricorda il lavoro non pagato e ben venduto, nei lager dei "matti"? — così i carcerati, ai quali l'estorsione di plusvalore si mostra nella sua dimensione nuda e cruda. Il simbolo del sistema di educazione al lavoro, la vera scuola di "vita" è certamente il lavoro dei bambini. Centinaia di migliaia di piccole braccia — quante non entreranno mai in età da statistica, visto il pauroso numero di infortuni? — che vivono il gioco del lavoro coatto fin dai primi anni di esistenza per chiudere le smagliature della repubblica fondata sul pluslavoro (7). Falso come questo è il metodo usato per registrare la quantità di lavoro e di conseguenza la produttività sociale (7bis)..
In Italia il lavoro di milioni di persone non esiste, non viene considerato dalle rilevazioni ufficiali: è lavoro non pagato, lavoro clandestino erogato fuori da qualsiasi norma delle vigenti leggi sul lavoro. I quasi 20 milioni considerati dalle statistiche — cioè il 36 per cento circa della popolazione — come forze di lavoro (occupati, disoccupati e persone in cerca di prima occupazione) sono senza dubbio una cifra inferiore alla realta. Cerchiamo di vedere di quanto. Campioni rilevati localmente pongono il tasso di attività in termini di percentuali sulla popolazione ad almeno il 20-30 per cento al di sopra di quello ufficiale (8). Ma questi dati — viene detto — non possono essere generalizzati. Da una semplice valutazione di altri dati ISTAT dobbiamo ritenere che il tasso ufficiale di attività deve essere maggiorato di almeno il 50 per cento.
Infatti, tenendo conto che la popolazione "non attiva" (per l'ISTAT) è costituita da circa il 64 per cento da donne e che, sempre alla data del censimento del '71, c'erano in Italia 16 milioni di famiglie, mediamente composte di 3 persone, ne risulta che circa 10 milioni è il numero di casalinghe, cioè di lavoratrici produttive non pagate e non considerate dalle statistiche. Continuando su questa strada possiamo verificare che poco più di 11 milioni di pensioni I.V.S.(invalidità, vecchiaia, superstiti) (10) costano all'INPS circa 10.000 miliardi con una cifra annua media per pensione di 847.000 lire. Ora, sapendo che la cifra media è lorda e ingloba le pensioni d'oro che sottraggono una buona fetta dal monte-pensioni, non è lontano dalla realtà dire che almeno 5 milioni (meno della metà) di pensionati non sono registrati come occupati ma lavorano perché non è possibile "vivere" con un reddito di 60.000 lire al mese (ll). Questi "non attivi" contribuiscono alla produzione e sono un altro 25 per cento da sommare alle cifre ufficiali. Siamo arrivati così con molte semplificazioni ma certo ancora sotto i valori reali a dimostrare che non 20 ma 35 milioni di persone lavorano. Chi parlava di minoranza che produce deve modificare il discorso e rifugiarsi in un altro dei sacri dogmi della società del capitale: il lavoro produttivo e quello improduttivo. Infangheremo anche questo. Resterebbe da vedere l'incidenza dei giovani e degli stranieri — con e senza permesso di soggiorno — nei livelli di occupazione. Per i primi cercheremo di verificare come non solo una buona parte degli "scolari" lavora nella fabbrica diffusa, nel circuito a ragnatela del lavoro precario, ma la grande maggioranza — e sono più di 10 milioni — valorizzano il capitale andando semplicemente a scuola per prepararsi a farsi sfruttare — dalle elementari all'università. Per gli stranieri in Italia, cercheremo di documentare la loro massiccia presenza nei lavori peggio pagati: lavoro domestico, bari e ristoranti, alberghi; o i più nocivi fonderie, lavorazioni a caldo, cantieri edili e stradali.
(Alcune proposte in merito vengono presentate in altra parte del giornale)
Sul bagnasciuga della cosiddetta "ripresina" economica italiana, c'è anche chi — per conto dei padroni — fa l'elogio delle forme più brutali di fabbrica diffusa e non nasconde la propria incredulità di fronte alle statistiche dell'ISTAT. Quello che interessa a questa gente è che tutto resti com'è; e per questo ne parla sottovoce. Occorre invece scoprire i sacri altari, fumo dell'incenso a parte.
2. PRODUTTIVO COME LA MORTE
"E poi, in fondo, nella letteratura proletaria il mondo visto dagli operai non è il mondo, ma il mondo degli operai. In questa limitazione per altro era la sua forza. Tuttavia era avvertita come limitazione. Allorché tentò di superare questa limitazione precipitò nel realismo socialista, ciò che avvenne quando cedette la gestione della funzione del vedere, alla piccola borghesia vogliosa di riscattarsi dai sensi di colpa. E fu la fine" (12).
Un vecchio proverbio nostrano dice: "In tempo di guerra, più balle che terra". Oggi è peggio. Periodo di transizione, trasformazione socialista, nuovo modo di produrre, nuova cooperazione sociale, sviluppo della base produttiva, unità nazionale europea, terzo buco, nudi ma di nuovo insieme, ecc.; la grande marea ci sommerge imponendoci di nuotare nel mare della crisi o di affogarcisi liberamente. Chi non si butta in questo liquame è subito un delinquente: lo garantisce la macchina democratica dello stato, costruita allo scopo. Il comune concetto di libertà arriva, avendo la difesa della proprietà nella sua storia, e si ferma alla famosa regola: chi non lavora non mangia, e chi fa lavorare mangia per tutti. E' chiaro che si tratta di una libertà fondata sul dominio di classe, formatasi su di una storia di violenza, quella VIOLENZA che sta alla base della "nostra" società e che tanto sembra meravigliare gli onesti e irreprensibili democratici cittadini amanti dell'ordine per il lavoro ( 13). Possiamo comprendere come questa storia di violenza non abbia un unico segno, come non sia solo e sempre "cattiva" ma invece comparabile al lavoro, così come noi lo conosciamo, che per secoli ne è stato l'effetto; così come rifiutiamo il lavoro, in quanto elemento da rendere marginale, rifiutiamo quella violenza che impedisce di allargare la definizione di libertà fino a comprendere LA NON OBBLIGATORIETA' DEL LAVORO E LA GARANZIA PER TUTTI, NELLA FORMAZIONE STESSA, DEI BENI DESIDERATI (14).
La possibilità di uscire dal mondo costruito sul tempo di lavoro e per il lavoro (uscita collettiva, è ovvio; quella individuale, comunque la si metta, finisce sempre in un ..... ingresso secondario, magari con funzioni da bagnino) c'è semplicemente PERCHE' SI E' SVILUPPATO UN MOVIMENTO DI LOTTA. CIOE' DI VIOLENZA. CHE A LIVELLO INTERNAZIONALE HA POSTO LA QUESTIONE (15), (16).
Alfred Shon-Retel nel suo libro "Lavoro intellettuale e lavoro manuale"(1952), descrive bene, anche se solo in termini iniziali, il nuovo livello di scontro che passa per la divisione della violenza come circuito imposto dal proletariato contro lo schema precedente basato sulla divisione internazionale del lavoro; infatti scrive: "La nuova legge formale determinante è il principio della UNITA' OPERATIVA DI MISURAZIONE della attività umana necessaria nel processo produttivo e delle funzioni tecniche delle forze produttive materiali applicate. CIO' CHE DEVE ESSERE PRODOTTO, quindi la scelta del programma sociale del consumo, NON E' PIU' SOTTOPOSTO AD ALCUNA DETERMINAZIONE ECONOMICA, bensì della libera decisione delle forze socialmente determinanti. Stabilito il programma, il processo produttivo sociale necessario per realizzarlo deve essere determinabile intellettualmente come un tutto ben articolato in base alla misura delle due variabili indipendenti la cui commensurabilità costituisce il suo principio fondamentale. La prima variabile è rappresentata dall'"operaio sociale complessivo", per usare l'espressione di Marx, poiché essa perde, come abbiamo già detto, il proprio carattere semplicemente metaforico e tende a diventare una grandezza calcolabile, in quanto TOTALITA' DI TUTTE LE FUNZIONI LAVORATIVE UMANE MISURATE NEL TEMPO; la seconda variabile è costituita dalla tecnologia delle forze produttive che devono essere applicate" (17).
Il problema che si pone oggi, dentro una prospettiva di sconfitta della società del capitale ANCHE militare, è quello di non subire l'iniziativa armata degli stati contro i proletari. Dopo le esperienze degli eserciti contrapposti formati da proletari che si scannano per la salvaguardia dei padroni, c'è' ora il rischio di arrivare ad una specie di "autogestione militare" visto che quella produttiva i proletari l'hanno respinta. Ciò che va gestito non può essere in contrasto con le basi sulle quali si è aperto (o rinnovato) lo scontro di classe; una "autogestione" militare e produttiva (tale cioè da giustificare delle regole coercitive di parte operaia) potrebbe esserci solo se la base dello scontro fosse LA RIUNIFICAZIONE DEL LAVORO (come ricomposizione del lavoro manuale ed intellettuale). Non c'è da rifondare una società del lavoro, perché il lavoro, dai proletari, non è più riconosciuto "ELEMENTO CENTRALE";la centralità, certo attaccando anche la divisione internazionale del lavoro che si riproduce fin dentro i soggetti, é un'altra: E' IL BISOGNO DI RIDURRE IL LAVORO A PURO ELEMENTO ACCESSORIO, NON OBBLIGATORlO, MARGINALE, IN TENDENZA QUINDI, NON NECESSARIO. Punto di riferimento è la figura del proletariato industriale come insieme di soggetti che si allontanano dal sistema del lavoro, con bisogni simili a quelli dell'operaio di fabbrica senza, esservi, magari, mai passati; da questo punto di vista la questione di cosa significhi oggi il lavoro produttivo (per i proletari) si pone non in termini di operaio che serve il ciclo della produzione capitalistica ed in quanto servitore indispensabile pone le sue "giuste"richieste (è il discorso di chi pone la centralità operaia come egemonia della produzione di merci....(18) bensì di operaio che produce (che è produttivo rispetto...) le condizioni per non essere più operaio e cioè merce forza-lavoro.
Lavoro Zero, numero 9/10 maggio 1979
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