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Vele_di_ScampiaQuesti testi sono apparsi su un numero speciale di "Collegamenti" del giugno 1974 dedicato al movimento delle occupazioni di case. Non ripubblichiamo la cronaca della lotta anche nella misura in cui l'ulteriore sviluppo del movimento delle occupazioni nel 1975 renderebbe necessario un lavoro di valutazione assai più approfondito che non ci interessa sviluppare in questa sede e aggiungiamo un ultimo testo di "Lutte de classe" come stimolo a riprendere una discussione sulla quale manca, oggi un punto di vista comune fra i compagni che pure hanno partecipato a questo tipo di esperienza con intenti identici. (Tratto da "Crisi del capitale e esperienza autonoma di classe")

Note sulle lotte di quartiere
(tratto da "Proletari Autonomi" del maggio-giugno 1972)

(Queste note sono parte di uno scritto con cui un militante di un gruppo che a Milano svolge lavoro di quartiere si dimette dallo stesso; perciò la situazione descritta è quella dei "nuovi grandi quartieri popolari" di Milano in cui lo scrivente ha svolto per cinque anni lavoro politico).

Negli ultimi anni alle tradizionali lotte di fabbrica condotte dal proletariato per mantenere il livello minimo di sussistenza, che il sistema capitalistico tende continuamente ad abbassare, e per migliorare le condizioni di lavoro, che altrettanto peggiorano ogni giorno (ritmi e nocività), si sono aggiunte le lotte condotte fuori dai luoghi di produzione, principalmente nelle case e nelle scuole. Qui si vuole analizzare la lotta condotta nei quartieri, la sua validità e il tipo di organizzazione meglio adatto.

Le lotte per le case non sono nuove, già nell'ottocento, specialmente in Francia, lotte analoghe erano state condotte da gruppi anarchici e socialisti rivoluzionari (blanquisti) e anche in Italia, specialmente a Milano le lotte contro il carovita (prezzo del pane) si erano unite a lotte per abitazioni decenti, ma lo sbocco, qui, fu la creazione dell'Istituto Autonomo Case Popolari (IACP), creatura dell'allora socialdemocrazia umanitaria milanese (andando più avanti nel tempo sono rintracciabili altre lotte per la casa: Oudevile, uno storico francese sostiene che la storia della civilizzazione non è altro che la storia delle città e quindi delle lotte popolari per le case). I teorici marxisti, specialmente Engels nel suo scritto "La questione delle abitazioni", hanno detto che non è possibile condurre una lotta rivoluzionariamente vittoriosa nei quartieri, perché qui il proletariato non vive la sua contraddizione fondamentale, l'appropriazione del plusvalore, quindi il principale sfruttamento della classe lavoratrice avviene solo nei luoghi di produzione ed è nella fabbrica che va condotto lo sforzo principale delle lotte.

Al di fuori della fabbrica il proletariato, nell'acquisizione di beni e servizi, è allo stesso livello della piccola borghesia, perché come essa si rivolge al mercato libero dove appunto contratta e acquista a livello di mercato senza che vi sia alcuna appropriazione extra a suo danno, rispetto alle altre classi. E' indubbio che il proletariato abiti e viva male nei luoghi in cui lo si costringe a stare, ma la soluzione dei problemi di quartiere e così di tutti gli altri che non siano direttamente connessi alla produzione, potrà avvenire solamente dopo la presa di potere da parte del proletariato, che avverrà con la conquista dei mezzi di produzione.

Questa teoria, del 1880 circa, ha condizionato l'azione dei gruppi di sinistra in Italia, come in altri paesi, per un lungo tempo, fino a circa gli anni '60. In questo tempo alcuni gruppi della sinistra extra-parlamentare hanno riscoperto la lotta di quartiere che "spontaneamente" il proletariato aveva continuato a fare malgrado l'ideologia ufficiale l'avesse sconsigliata. Quindi tenterò di analizzare, in modo sommario, perché essa è stata portata avanti.

La teoria di Engels è valida, ma solo nel momento in cui i beni di consumo necessari al proletariato per la sua sopravvivenza minima sono acquistabili in un mercato libero dove tutte le classi sociali si trovino sullo stesso piano di acquirenti, senza che nell'acquisto di merci da parte di alcune classi sia insita una contraddizione simile a quella dell'appropriazione del plusvalore che il capitale effettua sul luogo di produzione. Questo è il caso classico descritto dagli economisti marxisti.

Ma esistono anche altri casi e anche abbastanza vecchi, in cui alcune merci necessarie al proletariato, come la casa, non sono oggetto di scambio in condizioni di mercato libero, ma sono offerte (o imposte) al proletariato come parte del salario pagato in natura. Si possono dare alcuni esempi; già alla fine dell'ottocento a Moulhouse, in Alsazia, la SACM (grossa impresa paragonabile alla Breda, ma più grande) costruì grossi villaggi per i suoi operai, vivenza subiscono egualmente un furto di plusvalore, dato che parte del salario viene loro corrisposto in natura. In questo caso la lotta condotta in quartiere per la riduzione dei fitti, dei prezzi dei generi alimentari, dei trasporti, ecc. è una lotta condotta direttamente contro il datore di lavoro che è lo stesso, anche fisicamente, sia sul luogo di produzione che sul luogo di consumo.

I due esempi sopra riportati non sono gli unici, ma fino a poco tempo fa costituivano un'eccezione alla regola generale che condizionava l'acquisto di merci necessarie al proletariato, condizione generale era quella del libero mercato. Ma questa condizione non è più valida oggi, perché dalla fase di capitalismo liberista siamo passati a quella di capitalismo totalitario in cui l'intervento dei grandi monopoli e dello stato regola tutta la vita del proletariato condizionando gli acquisti di molte merci, principalmente della merce casa.

Sul mercato delle abitazioni popolari la presenza degli enti pubblici è sempre maggiore ed aumenterà col tempo, ad affitti bassi, ma con la contropartita di un salario minore. Uno stesso esempio del genere, in Italia, si è avuto a Valdagno, dove tutto il paese è di proprietà dei Marzotto, nella cui industria lavorano quasi tutti gli abitanti della zona; qui non solo le case, ma anche tutti i generi alimentari, il vestiario, le vacanze, gli svaghi, ecc. sono prodotti e forniti dall'organizzazione che gestisce l'industria tessile, che offre ai suoi dipendenti merci a prezzi più bassi con il corrispettivo di una paga minore (questa situazione era ancora valida fino a pochi anni fa, fortunatamente le lotte operaie alla Marzotto la stanno distruggendo).

In questi casi in cui le merci necessarie alle classi lavoratrici sono offerte direttamente dagli stessi datori di lavoro, questi ultimi hanno, attraverso la fornitura di tali beni, la facoltà di pilotare i consumi e di imporli. Quindi i lavoratori non godono più della libera scelta di mercato, ma nell'acquisto delle merci necessarie alla loro sopravvivenza. Attualmente a Milano IACP gestisce circa 106.000 appartamenti pari all'11% dell'edilizia residenziale della grande Milano (comune milanese e limitrofi) e il suo obiettivo minimo è di arrivare al 25%; il che significa, considerando le sole abitazioni popolari, che tali percentuali vanno raddoppiate. L’IACP agisce quindi in stato di oligopolio e condiziona tutto il mercato milanese delle abitazioni popolari. La costruzione delle abitazioni popolari è (o dovrebbe essere) finanziata con le trattenute sulle paghe dei lavoratori, quindi lo stato controlla questo vasto campo. D'altro canto sempre lo stato, direttamente o attraverso i suoi enti, controlla sempre più la produzione e vi interviene direttamente, non solo ma attraverso altre trattenute sui salari controlla l'accumulazione per malattia, vecchiaia, ecc. del proletariato. Stiamo perciò avviandoci verso un regime dirigistico in cui il proletariato non ha alcun controllo (l'unico, le elezioni, sono una farsa) sulla gestione della propria vita, se non la lotta.

In questo modo la lotta nei quartieri viene ad essere una lotta che può diventare rivoluzionariamente vittoriosa, dato che il principale padrone è lo stato che controlla sia la produzione, che la distribuzione e il consumo.

Esaminiamo ora come la lotta nei quartieri si è sviluppata e quali siano le sue prospettive di sviluppo. Essa è iniziata nel '68, suppergiù nello stesso periodo in cui cominciarono le prime lotte autonome nelle fabbriche e nelle scuole. Queste lotte si sono ampliate notevolmente sia nel senso della loro estensione che della loro organizzazione; nelle fabbriche si è passati dallo spontaneismo dei primi CUB, all'intervento dei gruppi della sinistra di "classe", per poi arrivare alle organizzazioni autonome operaie (assemblee autonome) che attualmente sono l'espressione più avanzata; attraverso questa trafila si sono formati i nuclei operai rivoluzionariamente coscienti e in grado di contrastare alle organizzazioni ufficiali riformiste l'egemonia delle masse operaie.

Nelle scuole il cammino svolto è stato all'incirca lo stesso e anzi qui le masse degli studenti resi coscienti è percentualmente maggiore. In quartiere questo non è avvenuto; eppure le premesse di una lotta generalizzata e di formazione di una larga base cosciente dello sfruttamento che vi si attua esistono; oltre tutto lo stesso proletariato che lotta in fabbrica è quello che vive nel nuovo e grande quartiere popolare. Non che gli inquilini non lottino, ma lo fanno in modo privato; infatti la IACP denuncia che su 20 miliardi di introito annuo previsto per gli affitti, 5 non vengono incassati per morosità; ciò significa che su 106.000 inquilini, 1/4, cioè circa 25.000, attuano lo sciopero dell'affitto in modo continuativo, oppure, e questo mi sembra più esatto (dati precisi non si conoscono) che 50.000 inquilini attuano uno sciopero saltuario (praticamente si autoriducono l'affitto).

Gli inquilini proletari non pagano l'affitto perché, più o meno saltuariamente, non hanno i soldi per farlo. La mancanza di danaro per il fitto può dipendere da vari motivi. E' da scartare l'ipotesi che la normale retribuzione di un operaio non sia sufficiente per mantenere una famiglia normale al limite della sussistenza e in questa sussistenza minima è compresa anche la merce casa; questo perché il capitale non può non retribuire i produttori sotto tale limite necessario a reintegrare la forza lavoro. Perciò nel salario sono previste anche quote per acquistare (non nel senso di una volta per tutte, ma col fitto) la merce casa dove il proletario possa vivere e allevare i suoi figli, futuri prestatori di mano d'opera. E' vero che il capitale tende continuamente a ridurre tale limite minimo vitale ed è per questo che i lavoratori sono costretti a scendere in lotta per riconquistarlo, e quindi poter pagare tutte le merci loro necessarie, fra cui l'affitto. Quindi il proletario medio non può pagare l'affitto o per sua cause personali (disoccupazione, malattia, spese superiori incontrate da sé o dai suoi familiari, ecc.), o per cause collettive: gli scioperi di massa, necessari come si è detto per mantenere il limite della sopravvivenza, protratti per lunghi periodi, decurtano le paghe di una cifra tale da non permettere il pagamento di quei beni necessari che possono non essere pagati subito o non pagati, senza gravi danni. Questo non può normalmente essere fatto per il cibo, il vestiario, i trasporti, ecc., ma può essere fatto per il fitto, sono e devono essere riuniti, non solo perché le loro condizioni materiali di vita migliorino, ma soprattutto perché attraverso la lotta per questo miglioramento si formi e si consolidi la coscienza di classe anche in quartiere, non lo sono stati mai. Nei quartieri le varie organizzazioni che sono intervenute sono solo riuscite a formare delle piccole avanguardie, ma una larga base come quella esistente nelle fabbriche e nelle scuole non esiste; dei 50.000 inquilini che si presume non paghino l'affitto solo un'esigua minoranza segue le direttive dei gruppi che vi intervengono, siano essi riformisti come le varie UNIA, Apicep, ecc. o di "classe" come l'Unione Inquilini e altri extra-parlamentari.

Occorre quindi analizzare perché si è giunti a questo punto e quali possano essere i metodi e l'organizzazione migliore per giungere a contatto con gli inquilini. Cerchiamo quindi di analizzare il lavoro politico di quartiere e le condizioni oggettive e soggettive che esso presenta. In primo luogo analizziamo perché gli inquilini non pagano l'affitto e poi perché conducono la loro lotta in modo privatistico non socializzandola.

Il padrone di casa pubblico può e deve permettersi di perdere parte dei suoi introiti quando i suoi inquilini, per ragioni sociali, non sono in grado di pagarlo. Questa pratica è normalmente usata dagli enti pubblici gestori di servizi e i deficit delle aziende di trasporto, previdenziali, ecc., sono normali in una società di tipo dirigistico. Questa ragione sociale è quella che probabilmente trattiene l'IACP dall'uso, normale, di mezzi drastici contro la morosità dilagante.

Passando all'analisi del perché di un tipo di lotta privatistica e non socializzata condotta dai proletari quando agiscono come acquirenti della merce casa e di tutto ciò che alla casa si può ricollegare (trasporti, servizi vari, acquisto di generi alimentari, scuole, asili, ecc.), si possono notare le seguenti cose.

In primo luogo il nuovo grande quartiere popolare, quello che concentra gran parte del proletariato o ne concentrerà sempre più, viene concepito e realizzato in modo tale che i normali rapporti umani tra le famiglie risultano molto più difficoltosi che non nelle, vecchie abitazioni, magari à ballatoio. E questo non solo per la mancanza di luoghi di riunione sociali, luoghi accuratamente omessi nella pianificazione di nuovi quartieri, ma per la struttura stessa con cui il quartiere è costruito. Le case sono lontane e isolate, praticamente tutte eguali, ogni pianerottolo dà accesso a solo due appartamenti e la scelta delle due famiglie che abitano sullo stesso piano è stata fatta in modo tale che mai due famiglie di operai si trovino a contatto, ma sono sempre divise da famiglie piccolo borghesi impiegatizie o da membri dei corpi addetti all'ordine pubblico (famiglie di carabinieri, poliziotti, vigili urbani). In questo clima la famiglia tende a rinchiudersi in se stessa, in balia dei mezzi di informazione e di formazione del consenso, quali la radio e la TV, che spesso rappresentano il solo contatto col mondo esterno.

A ciò si aggiunge il fatto che il capo famiglia giunge in quartiere la sera tardi già oberato dei problemi incontrati sul lavoro e sul trasporto, sempre lungo, tra fabbrica e casa ed è per ciò scarsamente incline ad iniziare una nuova lotta, preferendo godersi quella poca pace e riposo che il sistema gli concede in quartiere. Rimangono le donne, molte di esse lavorano per contribuire all'economia familiare, sempre al limite della sussistenza ed inoltre molte sono ancora fortemente soggette culturalmente all'autorità del marito per permettersi iniziative di lotta autonoma (il problema delle donne e dei giovani che vivono nei nuovi grandi quartieri popolari necessita di un'analisi molto più dettagliata ed è urgente che venga fatta, qui per necessità di tempo e di impreparazione dello scrivente non è il caso di farla).

In tale modo le necessità economiche, i problemi strutturali e sovrastrutturali dovuti al quartiere vengono mantenuti all'interno delle singole famiglie e non esiste alcuna comunicazione con gli altri gruppi familiari che, indistintamente, soffrono delle stesse contraddizioni. Inoltre il perbenismo borghese pervade ancora il proletariato nei suoi rapporti col sistema, quando si trova ad agire come acquirente, anche se sul luogo di produzione ormai egli attua forme di lotta antilegalitarie, in quartiere è ancora legato all'etica borghese che gli impone di non fare debiti e di pagare, salatamente, le merci che è costretto ad acquistare. Una famiglia che sia costretta a non poter pagare l'affitto bada bene che tale notizia non si diffonda tra i vicini onde non perdere la stima.

Come tutti i compagni che hanno fatto lavoro di quartiere avranno notato, è molto difficile entrare in contatto reale e diretto con gli inquilini; a Milano, malgrado cinque anni di sforzi, l'Unione Inquilini non è ancora riuscita a generalizzare la lotta pubblica, anzi la situazione è venuta man mano peggiorando, il contatto politico con la massa degli inquilini non esiste più, se mai è esistito, e l'organizzazione scivola man mano nella burocratizzazione e si automantiene creandosi dei falsi scopi (vendita del giornale dell'U.I. e relativa battaglia per mantenerlo economicamente non passivo). Se queste sono le condizioni pur sussistendo la possibilità teorica della lotta e quindi la necessità di condurla a fondo, anche in quartiere è necessario iniziare un nuovo tipo di lotta che dia maggiori possibilità di vittoria. Se la fabbrica rimane il posto dove il proletariato ha maggiori possibilità di lotta, sia perché lì si attua il maggior furto di plusvalore, sia perché le condizioni di socializzazione sono massime e quindi maggiori le possibilità di vittoria immediata e strategica, dalla fabbrica deve ripartire la lotta di quartiere.

Quelle stesse organizzazioni autonome di lotta che si sono create in fabbrica devono potersi anche interessare delle lotte da condurre in luoghi da abitazione; finora la fabbrica è stata poco interessata dei problemi di quartiere, le poche volte lo si è fatto quando tali lotte giungevano al loro culmine (sfratti) e quindi con scarsi risultati. Interventi di questo genere devono essere invece previsti a lunga scadenza in modo che durante le grandi lotte per i contratti la parola d'ordine della lotta anche in quartiere possa essere attuata massicciamente con i mezzi dello sciopero dell'affitto o con altri suggeriti dall'inventiva del proletariato. Inoltre si deve tener presente che quelle difficoltà che le organizzazioni autonome incontrano nei collegamenti interfabbrica, se vogliono evitare la mediazione di gruppi esterni, può essere superata con delle organizzazioni di quartiere che raggruppino operai delle varie fabbriche. Infatti la situazione milanese presenta numerose piccole medie fabbriche, spesso molto distanziate tra loro; non esiste a Milano una fabbrica egemone come a Torino in grado di guidare tutte le lotte. Perciò le varie iniziative autonome devono essere mediate dai gruppi che spesso le tarpano.

Nei nuovi grandi quartieri popolari si ritrovano operai di tutte le fabbriche metà o più delle 106.000 famiglie che a Milano "godono" i vantaggi dell'amministrazione dello IACP sono sicuramente proletarie e perciò nei quartieri si possono realizzare assemblee autonome che raggruppano operai di tutte le fabbriche milanesi. L'azione di questi gruppi operai, già abituati a lottare duramente assieme sul luogo di lavoro può rilanciare le lotte di quartiere, portandole al livello che le competono, perché tutte le remore sociali che finora si sono frapposte all'estendersi di una coscienza proletaria di quartiere verrebbero superate. I proletari gestirebbero in prima persona anche queste lotte che come si è visto sono essenziali, perché man mano che lo sfruttamento capitalistico diventa totale, altrettanto totale deve essere la risposta.

Lotte di classe e lotte di quartiere
(tratto da "Lutte de classe" del giugno 1974 - Bollettino del G.L.A.T.)

Osservazioni su le "Note sulle lotte di quartiere".

Questo testo si distingue per un tentativo di dare un fondamento teorico ad una problematica che è generalmente affrontata a livello del puro empirismo. Disgraziatamente, questo tentativo non resiste ad un esame, anche se superficiale.

Sbarazziamoci prima di tutto dei problemi che non sono realmente legati alla questione in esame.

1) Le lotte di quartiere propriamente dette non hanno niente a che vedere con la costituzione di collegamenti interfabbriche in una data zona territoriale.

Un tale organismo può estendersi ad una regione, ad una città, o limitarsi ad un quartiere o ad una strada: questa è una questione tattica da risolvere nella realtà, e che non risente delle condizioni dell'estrazione del plusvalore o del funzionamento del mercato capitalistico. Altrimenti, l'unico coordinamento possibile sarebbe quello mondiale, poiché il mondo è il solo quadro entro cui il capitale funziona realmente. E' quindi chiaro che fino al rovesciamento del capitalismo tutti gli organismi di lotta che potranno costituirsi non saranno che a competenza territoriale limitata, per delle ragioni materiali molto evidenti. Pertanto un organismo che si trova — accidentalmente — ad avere una competenza limitata ad un quartiere non sarà un organismo di lotta di quartiere, se la sua attività di coordinamento si esercita verso le lotte portate nelle fabbriche del detto quartiere.

2) Allo stesso modo l'autore non fa che seminare confusione quando tratta il caso limite ove il luogo di produzione coincide con quello di abitazione. E' allora molto evidente che riunirsi e lottare sui luoghi di lavoro o nel "quartiere" è un unica e medesima cosa. E' illogico estendere questo caso molto particolare alla situazione generale ove il luogo di abitazione e quello di lavoro non coincidono minimamente.

Più serio, a prima vista, appariva l'argomentazione secondo la quale la monopolizzazione del mercato degli alloggi — particolarmente per l'intervento dello stato — avrebbe per effetto di modificare le condizioni di estrazione del plusvalore. Essendo questa effettuata, almeno in parte, sui luoghi di abitazione dei lavoratori, non converrebbe loro opporvisi lì come fanno a livello di fabbrica? Ma l'analogia non regge per nulla.

E' vero che a breve termine il tasso di sfruttamento è determinato dall'insieme di tre variabili: produttività del lavoro, salari e prezzo delle merci consumate dai lavoratori.(1) Ma di queste tre variabili, solo le prime due sono fondamentali essendo la terza un fattore determinato dal processo di conversione del valore in prezzo di produzione. Questo processo non subisce che leggere modifiche, e non un mutamento radicale per via della monopolizzazione, sia essa pubblica che privata, di larghi settori dell'economia. Con o senza concorrenza in seno ad ogni branca di industrie, il perseguimento della valorizzazione del capitale implica la perequazione del tasso di profitto, e lo stato non può sottrarvisi, alla lunga, alla pari di un capitalista individuale, sotto pena di vedere bloccata l'accumulazione. Il monopolio permette entro limiti ben definiti, di assicurarsi un superprofitto a scapito degli altri capitalisti, questo non autorizza minimamente il suo fortunato titolare a sottrarsi alla legge del valore. Tutto quello che segue non fa che spiegare la subordinazione fondamentale della sfera della circolazione a quella della produzione, pietra angolare della lotta proletaria. E' in effetti la piccola borghesia che mette perpetuamente le sue speranze nella tassazione dei prezzi, il credito gratuito, e in altri miracoli circolatori, che il proletariato non condivide se non in maniera del tutto eccezionale e unicamente nella misura in cui non è libero dalle influenze piccolo borghesi. E' dunque con soddisfazione che veniamo a conoscenza che le leggi storiche si sono verificate anche a Milano, e che tutti i tentativi di far nascere delle lotte di quartiere sulla questione degli alloggi si sono chiuse con un insuccesso altisonante.

Si osserverà del resto che l'autore su questo punto si contraddice in modo lampante e che il suo testo rappresenta anche per lui una confutazione. In principio l'autore ci informa che il proletariato, con gran danno di Engels, non ha tralasciato di condurre a Milano, come altrove le lotte più eroiche sulla questione degli alloggi, dopo di che, non solamente l'autore mostra che questo non è niente, ma continua e spiega perché non avrebbe potuto essere che così.

Il richiamo al puro volontarismo per superare questa contraddizione non fa che sottolineare l'incapacità di analizzare i rapporti sociali reali. No, caro compagno, non dipende minimamente dal tuo intervento che i proletari "possano e debbano essere riuniti" affinché "si formi e si consolidi la loro coscienza di classe". Tutti questi buoni risultati, certamente molto desiderabili, solo l'azione del capitale è capace di ottenerli essendo il ruolo dei militanti sensibilmente più modesto. Conviene dunque domandarsi in quali condizioni l'azione del capitale ha l'effetto di costituire il proletariato in classe e di sviluppare la sua "coscienza". Porre questa questione è già come darvi una risposta. E' chiaro che è esclusivamente nei luoghi di produzione che il capitale si vede costretto a riunire i proletari ed a organizzare lui stesso la cooperazione su vasta scala. In qualsiasi altro luogo — e i numerosi esempi citati nel testo non fanno che illustrare questa realtà — il capitale organizza la dispersione e l'isolamento dei lavoratori, con una irresistibile forza alla quale un pugno di militanti difficilmente potrebbe opporsi. L'assenza di qualsiasi lotta reale sul piano del quartiere — a dispetto degli innumerevoli gruppi che si sforzano di provocarle — è dunque altrettanto poco sorprendente quanto l'esistenza — anche in mancanza di ogni agitazione artificiale — della lotta operaia nella fabbrica.

E' dunque falso, malgrado le apparenze, che il proletariato quando lo si trova nei quartieri sia lo stesso di quello che lotta nelle fabbriche. Senza dubbio, gli individui sono gli stessi fisicamente, ma essi non hanno la qualità di proletari se non nella produzione. Usciti da questa, niente li distingue dai piccolo borghesi assieme ai quali vivono nei grandi complessi urbani, ed è per questo motivo che si comportano esattamente come loro, sul piano dell'abitazione, con grande dispersione degli extra-parlamentari. Da notare del resto, che non è esatto che gli alloggi siano attribuiti sulla base di classe: lo sono in funzione del reddito, il che non è la stessa cosa.

Si può ugualmente affrontare la questione sotto un altro punto di vista, domandandosi di quali armi i proletari dispongano per raggiungere i loro obiettivi immediati. A livello della fabbrica la risposta non pone dubbi: quello che limita lo sfruttamento è il rifiuto collettivo di vendere la forza-lavoro, o le restrizioni opposte al suo suo. Ma a livello del quartiere? Nel testo questo problema non è neppure sfiorato, altrimenti la discussione ne verrebbe facilitata.

E' necessario dunque riferirsi a qualche esempio sfuggito all'attenzione dell'autore. Sembrerebbe che l'arma principale sia lo sciopero degli affitti, vecchio serpente di mare che il faro girevole della crisi del capitalismo riporta periodicamente sulla riva. Ma chi non vede immediatamente che un reale sciopero degli affitti comporta, in maniera quasi automatica, lo scontro con l'apparato dello stato, o per meglio dire una situazione come minimo pre-rivoluzionaria, che non sembra essere, fino a prova contraria, quella in cui ci si trova attualmente? E chi non vede d'altra parte che non esiste alcun aumento dell'affitto (come, del resto, nessun aumento di un prezzo qualsiasi) che non possa essere immediatamente compensato con un aumento sufficiente dei salari, che la classe operaia è capace d'imporre senza uscire dalla produzione e senza avere da risolvere gli incredibili problemi di organizzazione che l'autore del testo vuole ad ogni costo farle assumere? Si credono gli operai sufficientemente idioti per andare a cercare un maglio quando si tratta al massimo di rompere una nocciola? Il proletariato si pone i problemi che è capace di risolvere essendo di una naturale pigrizia, cerca di farlo con la minima spesa, e nella maniera più semplice.

Essendo così, esistono altri mezzi per agire a livello del quartiere? Li si conoscono troppo: petizioni, manifestazioni di ogni genere, tutta la panoplia del perfetto piccolo riformista, della quale il testo mostra chiaramente la totale irrimediabile inefficacia. Resta da capire che questa inefficacia non è occasionale ma necessaria, poiché prende forza dai rapporti sociali che implica questo genere di attività.

Quello che fa la forza del proletariato nei luoghi di produzione, è che da una parte la lotta risulta dalle condizioni materiali create dal capitale, e dall'altra ha per scopo di sviluppare nel mezzo del proletariato dei nuovi rapporti sociali, tendenti al comunismo (la famosa autonomia). Niente di questo è vero a livello del quartiere: le condizioni materiali sono fortemente sfavorevoli ad una qualsiasi azione collettiva, e il genere di attività che può eventualmente avere luogo non ha per scopo di sviluppare l'autonomia proletaria, ma al contrario di mettere i proletari atomizzati al rimorchio della piccola borghesia, che si trova come un pesce nell'acqua, poiché è evidentemente assente dalle lotte nella produzione. La relazione, molto nota, tra l'agitazione populista a livello di quartiere e l'elettoralismo(2) non è il frutto del caso o di una orientazione erronea, ma il fedele riflesso della natura di classe di questa attività, che non ha niente di proletario.

Inutile dunque per il proletariato sprecare il suo tempo e le sue energie per inventare dei metodi inediti di agitazione e di lotta nei quartieri. Non è che in fase avanzata della crisi rivoluzionaria che la lotta può o deve oltrepassare le fabbriche per approdare nell'insieme dello spazio sociale. E in quel momento però non si tratterà né di alloggi né di affitti, ma di ben altre cose. In queste condizioni parlare di "lotte rivoluzionariamente vittoriose" può avere un senso. Parlare, come fa il testo, a proposito di non si sa quale agitazione riformista, è precisamente infischiarsene del mondo.

Lotte di fabbrica e lotte di quartiere
Risposta a "Lutte de classe" preparate da alcuni compagni del CCRAP.

Premessa: Stato e capitale nella questione delle abitazioni.

Ci sembra opportuno sbarazzare la discussione da un fraintendimento di fondo; secondo noi l'intervento dello stato nell'edilizia non è tanto teso alla costituzione di un suo monopolio in questo settore, né a realizzare un suo immediato profitto in quanto imprenditore, quanto a fungere da regolatore del mercato edilizio e da programmatore della struttura urbana nel senso di controllo politico e militare della metropoli.

Il persistere di un'insubordinazione di classe ha reso difficile al capitale il riequilibrio del costo della forza-lavoro rispetto al saggio di profitto. Si tratta, per il capitale, di far fronte ai nuovi costi con nuovi meccanismi di produzione e di gestione. Nello specifico dei quartieri e dei consumi il problema è di creare canali sicuri di andata-merci ritorno-denaro che evitino una eccessiva dispersione; perciò si modificano le produzioni che divengono sempre più livellate, sempre più concentrate, sempre più industrializzate (sparizione delle produzioni artigianali, controllo delle piccole fabbriche), e si modificano i mercati (estensione dei supermercati, razionalizzazione della vendita al dettaglio).

E' interesse dei gruppi capitalistici più avanzati gestire direttamente il mercato dell'edilizia, razionalizzando il settore per ottenere un flusso considerevole e costante di fondi di finanziamento: le finanziarie dei grandi gruppi, come la Gabetti per la Fiat, sono preposte a questo.

In questi ultimi tre anni il processo di concentrazione è proseguito, portando alla formazione di un mercato oligopolistico nel settore delle abitazioni. Due le conseguenze primarie di questo processo: il primo è l'aumento del canone medio di affitto, in certi casi più del 100%, che viene a incidere nelle nuove locazioni per il 40-50% sul salario operaio, da qui la difficoltà a pagare l'affitto, le conseguenti auto-riduzioni o scioperi dell'affitto e quindi gli sfratti; il secondo, legato alla meccanica della concentrazione è la diminuzione dei piccoli e medi proprietari di alloggi che porta anch'essa ad un notevole aumento degli affitti e degli sfratti.

L'aumento del canone avviene nonostante il blocco degli affitti (legge che impedisce al padrone di casa di maggiorare l'affitto agli inquilini con reddito inferiore ai 4.000.000 annui; iniziata nel 1948 è stata a più riprese prorogata, l'ultima volta fino alla fine del 74); infatti il padrone beffa la legge o aumentando le spese di amministrazione (portineria, riscaldamento, pulizie, ecc.) o, aumentando il canone nel caso che un nuovo inquilino subentri a uno che lasci l'appartamento. Il meccanismo della concentrazione avviene con la compera in blocco, da parte della immobiliare di vecchi palazzi che ammoderna, per poi vendere in modo frazionato gli appartamenti rinnovati. Non sempre, naturalmente, i vecchi inquilini sono in grado di acquistare l'appartamento, da qui lo sfratto; la nuova abitazione sarà senza dubbio più costosa della precedente; oppure accettano di comprarlo e in tal caso, ne divengono i padroni in 20 o 30 anni, anche in questo caso il canone di riscatto sarà aumentato rispetto al canone d'affitto.

Nei casi più clamorosi le immobiliari sventrano e smembrano interi quartieri centrali, espellendone i proletari verso zone periferiche della metropoli, causando forti disagi e costi dei trasporti.

Lo stato, inteso nella sua funzione di razionalizzatore e difensore dell'interesse complessivo del capitale, tende a programmare le condizioni entro le quali la forza lavoro si riproduce, in specifico l'organizzazione urbana.

Ma la sua funzione di mediazione e di cuscinetto è stata impedita e rallentata sia dal persistere di lotte proletarie, sia dalla conseguente crisi amplificata dallo scontro tra gruppi capitalistici (va chiarito che per gruppi capitalistici non intendiamo solamente quelli privati di tipo classico, ma anche le imprese a capitale pubblico strettamente intrecciate con l'amministrazione stessa dello stato, la classe politica e il clientelismo parlamentare). Questa lotta interna è sempre più accesa e senza sbocchi immediati, e costringe lo stato a dirottare i fondi destinati inizialmente a riforme (come quella della casa, per es.); a funzioni di controllo amministrativo e militare, (per es. finanziamento di gruppi capitalistici, aumento degli organici di P.S. e C.C., finanziamento dei partiti parlamentari ecc.).

Per quanto riguarda l'idea che lo sciopero dell'affitto comporti un immediato scontro militare, va rilevato che l'estensione di questa forma di lotta nei quartieri popolari di Milano gioca tutta sulla funzione di cuscinetto dello stato, con tutte le ambiguità che questa comporta in chiave democraticista, ma anche con chiara dimostrazione della capacità proletaria di seguire con intelligenza la linea di minor resistenza al capitale.

Per concludere, in questi i ultimi anni è stata bloccata la costruzione di case popolari da parte dello stato, con conseguente diminuzione complessiva di offerta sul mercato di alloggi a costo sopportabile dai proletari; da parte privata, invece, la tendenza è a costruire alloggi di lusso, a concentrare nelle proprie mani il mercato, e a tenere sfitti numerosi appartamenti per fare ulteriormente lievitare i prezzi (40.000 solo a Milano). Queste tendenze ricadono sul proletariato nella difficoltà a trovare casa, nella sua espulsione alla periferia metropolitana, nell'aumento del costo degli affitti. Effettivamente l'articolo da voi criticato poteva sembrare legato ad un'ipotesi di monopolizzazione, nel senso classico, da parte dello stato nel mercato delle abitazioni e in questo senso poteva provocare degli equivoci; quello che il compagno voleva sottolineare era il passaggio da un mercato libero, estrema frammentazione dei proprietari di alloggi, ad un mercato condizionato o rigido, diviso tra stato da una parte (case popolari i basso costo) , ed oligopoli (case di lusso e costose) dall'altro, entro il quale i proletari non hanno molta libertà di scelta.

Classe e strati di classi

Un altro punto che poteva essere ambiguo era l'ipotesi prospettata dal compagno della creazione di organismi autonomi di quartiere determinati da una sorta di volontarismo soggettivo, derivante dalla sua precedente esperienza nell'Unione Inquilini. In realtà, al di là di valutazioni tattiche che si sono dimostrate non del tutto esatte, c'era nell'articolo un'idea sostanzialmente giusta e cioè che avrebbe continuato ad esistere e si sarebbe sviluppato un movimento reale di lotta sul terreno dei consumi, che avrebbe posto il problema di creare livelli organizzativi funzionali a questo scontro. E' infatti la necessità del capitale di ristrutturarsi a fornire le condizioni reali e oggettive allo sviluppo del movimento di queste lotte.

Sostanzialmente, sono due le forme di lotta attuate nei quartieri.

1) Lo sciopero dell'affitto o la sua autoriduzione.

Il soggetto che pratica questa forma di lotta è generalmente l'abitante dei quartieri di abitazioni popolari; da un punto di vista di classe comprende operai delle industrie e impiegati (statali e non) a bassi livelli, cioè la frangia inferiore del ceto medio, e infine settori marginali (artigiani, venditori ambulanti).

2) Occupazioni di case, condotte in modo singolo o collettivo o di massa.

Investe o chi è completamente privo di casa, proletari che per la recente immigrazione finiscono nei centri sfrattati o coabitano con altre famiglie (emarginati sociali); oppure operai dell'industria che abitano nelle fatiscenti cascine della periferia di Milano, o che sono sfrattati perché non riescono più a pagare l'affitto.

Queste lotte si sono sviluppate ed hanno assunto via via un carattere di vero e proprio movimento, che, seppur non investe in "forma pura" solo il proletariato, pone a questo tutta una serie di problemi teorici ed organizzativi. Si tratta, nel valutare questo tipo di movimento, non di farne una generica descrizione sociologica, ma di vederlo dal punto di vista deciso e determinato dall'interesse proletario. Quindi il problema non è che la lotta serva solo al proletariato, bensì che sia per esso un momento di crescita se poi un movimento storico provoca una aggregazione di altri strati di classi questo è positivo o negativo a seconda degli interessi operai e anche della situazione specifica.

L'autonomia proletaria non è una serie di principi più o meno giusti, ma un rapporto di forza che il proletariato riesce a stabilire a partire dalla anche minima comprensione del suo stato di antagonismo con il capitale.

Il rapporto tra proletario-produttore e il proletario-consumatore

E' chiaro che la lotta di classe vede come principale e fondamentale terreno di scontro quello della fabbrica, tuttavia questo non implica che debba essere il solo, sia in periodo in cui lo scontro di classe è aperto e generalizzato, che quando appare in forma locale e frammentaria. Riteniamo infatti che la famosa "coscienza di classe" che il proletariato acquisisce nella lotta di fabbrica non scompaia negli altri momenti della sua vita e che al contrario emerga anche nelle diverse occasioni di scontro con il capitale. Infatti i proletari non sono pura funzione della produzione ma, lottando, creano strutture materiali ed intellettuali che permettono uno sviluppo della lotta non necessariamente legato allo sviluppo della produzione.

Ciò che forma la "coscienza di classe" non è solo lo sfruttamento nella produzione (processi e metodi di lavoro) ma anche la valutazione che il proletariato fa della sua passibilità di vivere col salario percepito, o meglio con tutto l'insieme dei mezzi nei quali crede di poter contare per mantenere la propria vita nei livelli che reputa opportuni (non si vuole ora offrire un giudizio del valore su codesti livelli: quanto di questi siano reali e quanto parte dell'ideologia dominante). E' chiaro che due operai dello stesso reparto possono valutare diversamente l'identico salario a seconda della condizione familiare (numero dei figli, moglie che lavora o meno), di possibili fonti di reddito esterne al lavoro (proprietà di una casa, di un pezzo di terra, attività lavorative esterne), dei rapporti sociali costruiti (maggiore o minore conoscenza della metropoli tra operaio locale ed immigrato, adattabilità psichica e fisica al lavoro, rapporti familiari ecc.), e ne consegue che la stessa richiesta di aumento di salario non soddisfa entrambi allo stesso modo di fronte ad un incremento dei prezzi.

A conforto di questa che potrebbe sembrare un'analisi sociologica e quindi priva di uno spessore di classe e di implicazioni organizzative, rimandiamo ai fatti di quest'anno: a fine febbraio, a seguito del decreto governativo sull'aumento della benzina, gli operai dell'Alfa Romeo e della Fiat a Torino scendevano spontaneamente in sciopero e portavano avanti, per più giorni, agitazioni che legavano i riferimenti della lotta per il contratto integrativo aziendale all'aumento del costo della vita. All'Alfa, nel mese successivo, le azioni operaie trovavano uno sbocco nell'appropriazione di viveri attuato, durante un corteo di sciopero, ai danni di un supermercato. Un'altra fabbrica che era anch'essa impegnata nella lotta per il contratto integrativo aziendale la SIT-Siemens, restava sostanzialmente esclusa da questo tipo di agitazione che tendeva a collegare fabbrica e quartiere. La composizione del proletariato-Alfa è per la massima parte d'immigrati meridionali con scarsi appoggi nella metropoli; la composizione di classe del proletariato-Siemens è al 50% di donne (che sostanzialmente aggiungono il loro salario o come mogli o come figlie, ad altri già percepiti nelle loro famiglie), e la presenza di meridionali di recente immigrazione è scarsa: ci si spiega allora perché sia stata l'Alfa a portare avanti quelle lotte in quel modo e non la Siemens. Con questo si vuole affermare che la dispersione e l'isolamento dei lavoratori che "il capitale organizza nei quartieri con forza irresistibile" si ripercuote poi all'interno delle fabbriche con coscienza e comportamenti differenti nelle lotte dei reparti e tra le differenti fabbriche. Non è dunque sufficiente per gli operai trovarsi riuniti e coordinati dal lavoro nei luoghi di produzione, quando sono divisi, oltre che dalle mansioni e categorie, anche da situazioni sociali differenti che li induce a valutare diversamente l'entità e la funzione del salario.

Ci sembra, invece, che sempre più la valutazione dei livelli di vita delle condizioni sociali di abitazione, del cibo, dei trasporti, dei rapporti all'interno dei quartieri ecc., si affiancheranno a quelle sullo sfruttamento, sulle condizioni di lavoro, sulle mansioni ecc. nella pratica delle lotte proletarie, nel senso che le lotte di fabbrica potranno partire dallo spunto delle necessità di quartiere e le lotte nei quartieri legarsi e intrecciarsi a quelle delle fabbriche (i sindacati subodorato il pericolo tentano di prevenirlo introducendo nelle piattaforme rivendicative di fabbrica punti riguardanti i costi sociali, es. dell'ultimo contratto integrativo aziendale la quota padronale interfabbriche per la costituzione di asili di zona, o dei consorzi per il trasporto dei pendolari).

Più che giudicare il proletariato fuori di fabbrica agire con comportamenti del "consumatore", al pari di altri strati subalterni, e sparare bordate fuori bersaglio è più esatto spostare il tiro e considerare il proletariato nel quartiere (casa, prezzi, rapporti sociali, ecc.) come subente la propria riproduzione di proletario-produttore; il bersaglio sarà allora tendere ad unificare politicamente e organizzativamente i comportamenti sostanzialmente eversivi nella fabbrica con quelli che si scoprono via via nei quartieri. Ci sembra che sia funzionale al capitale la divisione del proletariato non solo in strati ma anche in ruoli, l'uno di proletario-produttore sfruttato e bistrattato in fabbrica, l'altro di proletario-riproduttore di se stesso tutto teso all'integrazione e all'abbandono nelle molli braccia del consumo; funzionale anche nel senso che teorie di tal fatto hanno fornito la giustificazione a tutti i comportamenti organizzativi che hanno teso a coagulare la classe all'esterno delle sue effettive pratiche di lotta.

Invece, come abbiamo già accennato, è lo stesso movimento del capitale a creare le condizioni perché questa unità tra i due momenti della vita dei proletari avvenga, perché la ricomposizione dei ruoli possa verificarsi. Se fino ad ora questa linea storica ha progredito soprattutto sul punto concreto della casa vi sono accenni, a livello di lotte, perché si consolidi e si estenda a livello complessivo dei prezzi e dei servizi sociali.

Ad una organizzazione sociale (fabbrica-metropoli) sempre più totale, pianificata, coordinata che scende nei più riposti momenti della vita quotidiana e lascia sempre meno spazi personali di recupero, è logico ed inevitabile contrapporre lotte sempre più complessive.

Volontarismo e riformismo

Reali dunque, non volontaristiche, le condizioni dell'intervento nei quartieri. Altra cosa il privilegiare o addirittura esclusivizzare l'azione organizzativa nel quartiere rispetto alla fabbrica. Questo sostanzialmente hanno fatto i "gruppi" in questi anni: la loro pratica effettiva al di là di ogni possibile verniciatura ideologica è stata il quartierismo, nelle sue articolazioni di studentismo, antifascismo militante e di sindacalismo d'alloggi.

Cavalcando l'onda delle lotte studentesche del '68-69, i gruppi la dirigevano prima verso le fabbriche per portare la teoria e l'organizzazione "rivoluzionaria", poi, quando di fronte alle difficoltà politiche quest'onda si infrangeva davanti ai cancelli sui marciapiedi delle fabbriche, guidavano il riflusso nei quartieri dove si ritrovarono a riempire il vuoto politico lasciato dal riformismo parlamentare. Il flusso-riflusso non fu tanto determinato da scelte teoriche, da valutazioni tattiche, quanto dalla stessa origine sociale degli studenti che li spinge ad intervenire in forme assistenziali-educative mutuate spesso dalle pratiche parrocchiali.

Questo "nuovo corso" dei gruppi ha prodotto una singolare figura di militante, il quartierista nelle sue due varianti base; a) il sindacalista degli alloggi, difensore degli oppressi e diffusore della buona novella; b) l'antifascista militante, che su questo ruolo specifico si struttura in servizio d'ordine. In entrambi i casi al di là dell'utilità a volte indubbia, che possono avere certe attività, è l'organizzazione "complessiva", precostituita, che determina l'attività e non viceversa.

Ridicolo e penoso il marasma e la confusione ideologica che caratterizza frange di militanza studentista-piccolo borghese, e che la porta da una parte a mascherare le vesti eroiche, guevariste l'attività politica e che la conduce ad affrontare con la lancia di Don Chisciotte i battaglioni di P.S. armati fino ai denti; dall'altra a identificare sostanzialmente la teoria con una nuova religione, collegandosi così con la vecchia pratica di cattolici praticanti (tanti di loro), organizzati nelle strutture giovanili religiose pre-sessantottesche. Se si osserva poi che un militante gruppettaro, quando è calato nel suo ruolo di quadro dell'organizzazione perde ogni naturalezza e spontaneità nel rapporto con i compagni e con i proletari, la sua alienazione si completa.

Da parte riformista parlamentare va rilevato un tentativo di estendere il proprio potere attraverso il controllo di organi come lo IACP, sostenendo che questo sarebbe una vittoria operaia. Nella loro corsa alla conquista di una fetta maggiore di potere, i riformisti (PCI, PSI e Sindacati) e i neo-riformisti li appoggiano (gruppi "extra"-parlamentari) vedono nella "gestione democratica" dello IACP un passo avanti verso il controllo totale della classe operaia e la partecipazione al potere. E' chiaro quindi che l'azione diretta e di massa dei proletari sui propri interessi materiali è, oltre che un attacco al capitale, una critica pratica dell'impotenza dei riformisti anche nella difesa degli interessi immediati di classe, dato che dimostra che si possono ottenere risultati maggiori con la propria azione autonoma più che rivolgendosi a questo e a quel partito.

Tendenze attuali

Con le misure anti-"crisi" di questi ultimi due anni le condizioni per le lotte di quartiere, oltre a quelle di fabbrica, si sono accentuate. Risultato primo, il Movimento di occupazione di case, che da gennaio a maggio ha interessato parecchie città italiana, Roma, Napoli, Genova, Milano.

Il MdO non ha raggiunto il suo obiettivo materiale, la casa (c'è stato solo un decreto legge per l'edilizia), ma non per questo ha esaurito il suo potenziale di lotta e le sue problematiche. Nel suo svolgersi, il MdO ha macinato vecchie ipotesi organizzative, da una parte; dall'altra, ha mostrato che il proletariato non è disposto a subire i provvedimenti anti-"crisi" senza reagire; esso esiste, sopito, come il fuoco sotto le ceneri.

Esaminiamo, per cenni, i due aspetti: le ipotesi organizzative delle varie forze politiche e i caratteri reali del movimento.

Per primo, il panorama della sinistra si è modificato adeguandosi alle mutate condizioni. Dal punto di vista sindacale:

1) Il SUNIA (sindacato unitario nazionale inquilini e assegnatari), formato dalle tre confederazioni sindacali, è per una "piatta" osservanza delle leggi; le lotte equivalgono ad applicazioni delle leggi esistenti, l'obiettivo "equo-canone" si raggiunge con petizioni e con la presenza in Parlamento dei partiti.

Dalla FIM, a Milano, si è formato un para-sindacato che si pone come coordinatore delle lotte future e come fornitore di clientele gruppettare. Cioè, con grande acume, si pone il compito di assorbire le possibilità di mobilitazione dei gruppi, che dal canto loro non si aspettavano altro. Per questo infatti il più grosso problema è creare collegamenti sicuri con i sindacati, che a loro volta dovrebbero trascinarseli al tavolo delle trattative col potere: la "maturità politica" di questi signori li porta ad avere le visioni e ad una impotenza assoluta. Anche i gruppi hanno formato un intergruppi-case; l'UI si è spaccata, parte fagocitata da AO, parte rimasta alla vecchia guardia, rigidamente dedita ai quartieri: prima rompono, poi si pongono il problema di unificarsi.

2) A livello dei partiti parlamentari vi è l'iniziativa di far sorgere comitati di quartiere, che sostanzialmente hanno due scopi: fornire loro clientele (qui il cenno di GLAT al rapporto tra agitazione populista ed elettoralismo trova la sua conferma) con una serie di consigli agli inquilini e con la pratica effettiva di tenere assemblee su temi di partito (referendum, ecc.) poi, impegnare in una "pratica sociale" i loro giovani, altrimenti preda dei gruppi.

Rileviamo il diverso atteggiamento tra il primo modo di operare e il secondo; quest'ultimo è di breve respiro strategico, è il primo che si inserisce in quella che è la tendenza storica imposta dallo sviluppo delle lotte proletarie: la formazione di "partiti reali", o aggregazioni reali — come il partito-Sindacato, il partito-Confindustria, il partito-Banca d'Italia — mentre i partiti parlamentari sono sempre più svuotati dalle loro funzioni di legislatori. Lo svolgersi dell'autonomia di classe costringe le forze in campo ad assumere forme sempre più aderenti a quella del movimento delle cose reali: il Parlamento è sublimato, la nuova forma di gestione sociale è quella che si svolge tra le grandi aggregazioni sociali (l'ultima "crisi" di governo ne è la dimostrazione).

Per il secondo aspetto, i comportamenti della classe, ci sentiamo di affermare che, come tutti i movimenti, anche quello di occupazione di case ha generalizzato esperienza di lotta a uno strato di classe numeroso, che ora si è formato un riferimento, una pratica diretta alla quale richiamarsi; la premessa per una ripresa delle lotte esistono, ma si può prevedere che le forme di lotta e di organizzazione saranno diverse (i gruppi, dopo la batosta politica subita nel MdO non se la sentiranno di stimolare lotte di quel tipo, e i proletari non saranno, dal canto loro, disposti a mettersi nelle mani delle "intelligenze politiche" gruppettare; l'esempio di un centro sfrattati, che l'anno passato decideva di occupare rifiutando i gruppi dopo esperienze condotte con questi negli anni precedenti, è illuminante). Non è dunque, per il proletariato, spreco di tempo e di energie inventare dei metodi inediti di agitazione e di lotta nei quartieri, bensì una necessità concreta.

Per finire, la concentrazione oligopolistica e le misure di ristrutturazione creano un buco nel tessuto sociale dell'organizzazione capitalistica, del quale capitale e sindacato cercano di ricucire la trama. Quando l'opera di concentrazione sarà terminata e il tasso di profitto perequato, anche gli affitti saranno tornati "sopportabili", ma nel frattempo i prezzi e gli affitti aumentano e non sono sempre compensati da un immediato aumento dei salari. Il famoso livello di sussistenza la classe se lo conquista anche nei quartieri, ma non è solo questo il suo obiettivo, e finché il buco non è ricucito dentro questo può passare nuova esperienza proletaria.

Post scriptum: l'autonomia proletaria e la forza lavoro

Parlando di organismi autonomi c'è sempre il rischio di identificarli solo con "organismi di fabbrica", questo equivoco è tanto più possibile quando, come è avvenuto in Italia, l'autonomia organizzata è nata e si è sviluppata a partire da un'analisi critica che organismi "interni" di fabbrica hanno condotto ai gruppi "esterni", prima; con un'effettiva e distinta pratica politica ed organizzativa poi.

Questa impostazione corre il rischio di restare fonte di equivoci almeno per qualche tempo, soprattutto fino a quando, all'interno di quella che chiamiamo "area dell'autonomia", non si sarà risolto il problema del rapporto con quei compagni che, venendo da esperienze di gruppo o di troncone di gruppo, tendono a riprodurre strutture e metodi di lavoro e di organizzazioni tipiche dell'ipotesi dirigista e gerarchica.

Per "esterno" e "interno" intendiamo esterno e interno ad una situazione di classe non semplicemente esterno o interno al lavoro in una fabbrica; non si tratta quindi di contrapporsi ai gruppi, "esterni" alla lotta di classe, con il fabbrichismo, ma di costruire una presenza diretta e reale in ogni luogo dove esiste antagonismo tra capitale e forza-lavoro. Il compito dunque è quello di cogliere la complessità dei processi di formazione, di riproduzione ed aggregazione della forza-lavoro attraverso il mutarsi ed il rinnovarsi delle produzioni e dei processi produttivi. Il problema è, insomma, quello di non riprodurre, cambiandolo di segno, il processo di organizzazione capitalistica (grande fabbrica come centro e intorno il resto della società), ma di ripercorrere i processi di formazione della forza-lavoro, di seguirne i movimenti, di comprenderne l'impatto contro le strutture produttive. Solo così assume un senso concreto la comprensione della natura contraddittoria del proletariato, ad un tempo funzione subalterna della produzione capitalistica e sua negazione.

Due, fondamentalmente, ci sembrano essere gli aspetti di questo problema: il primo riguardante il processo produttivo, comprende il lavoro di fabbrica accanto a questo, tutta una serie di lavori marginali o sublavori; il secondo riguardante il processo complessivo del capitale e della produzione coinvolge, nel lungo periodo, la formazione della classe tutta.

Rispetto al primo punto, nei lavori marginali (lavoro nero, lavoro clandestino stagionalità, contratti a termine, lavoro a domicilio, part-time) si comprende il ruolo di vasti strati proletari, semiemarginati e purtuttavia essenziali per il processo di accumulazione. La stessa grande fabbrica appare, nella sua natura di polo dell'estrazione del plus-valore, integrata profondamente nella rete produttiva e non contrapposta a mille forme di sfruttamento, apparentemente arretrate ma ad essa funzionali.

L'esperienza del movimento operaio dei paesi a capitalismo maturo vede come figura estremamente importante, quella del proletario "marginale", che copre tutto un arco di mansioni (stagionalità apprendistato, lavoro a domicilio, ecc.) estremamente mobili ed intercambiabili e che "segue" il lavoro lungo le vie di comunicazione prodotte dallo sviluppo industriale. Questo settore di classe ha prodotto e produce forme di organizzazione funzionali alle contraddizioni specifiche che vive (gli IWW nei primi decenni del secolo sono stati l'esempio più evidente di questa affermazione). Ma anche gli anni '60 e '70 hanno visto l'emergere di lotte dei proletari marginali (i neri d'America, vasti settori dì emigrazione in Europa) con loro caratteristiche.

Ridurre quindi l'organizzazione possibile di classe ai gruppi autonomi di fabbrica significa sottovalutare le articolazioni reali del movimento operaio, ridurre alla figura di operaio-produttore il proletario, senza coglierne la natura di forza-lavoro non necessariamente legata al lavoro fisico e a rapporti stabili. C'è insomma il rischio di cadere in una concezione consiliare (l'operaio-produttore che lotta nella sua fabbrica e lì dentro solo riorganizza) quando la lotta di classe pone il problema della ricomposizione dei vari settori del proletariato.

Per quanto riguarda il secondo punto, invece, c'è da notare che il quadro, entro il quale si svolge la lotta di classe in Italia oggi, è quello di un paese; ove il proletariato con la propria azione ha inciso profondamente nell'organizzazione del capitale: da qui la sua necessità di "ristrutturarsi" col modificare le produzioni (passaggio da produzioni attualmente traenti l'economia ad altre), e i sistemi o processi produttivi (per il controllo dell'effettivo dispiegarsi della forza lavoro). Così, il capitale, modificando il quadro entro il quale il proletariato si era dato livelli organizzativi efficienti, tenta di vanificarli e, mutando la composizione stessa della forza-lavoro, tenta di rompere la continuità organica tra un ciclo di lotte e il successivo. Esempi concreti di ristrutturazione: l'andata a sud dei capitali; il ciclo meccanico e il ciclo chimico l'assorbimento o il controllo delle piccole e medie fabbriche. Come tutto questo si ripercuoterà sui comportamenti e sulla composizione del proletariato?

(Queste ultime note non hanno alcuna pretesa di essere complessive, sono solo lo spunto per approfondire l'esame della situazione e hanno senza dubbio bisogno di una più lunga e profonda elaborazione).

Note complementari sulle lotte di quartiere e sulla composizione del proletariato.
(Risposta di "Lutte de classe" a "Lotta di fabbrica, lotta di quartiere" supplemento al n. 4 di "Collegamenti).

Il problema fondamentale sollevato dal testo dei compagni del CCRAP (Lotta di fabbrica, lotta di quartiere) è quello della definizione dello sfruttamento. In effetti non è sufficiente riconoscere in modo empirico la priorità della lotta di fabbrica; è necessario infatti chiarire su che cosa si fonda questa priorità: vale a dire la natura di classe del proletariato.

Da parte nostra non possiamo accettare una definizione dello sfruttamento che parta dalla situazione individuale del lavoratore, definizione che porta logicamente a delle vaghe nozioni di oppressione o di "alienazione" applicabili a tutti quelli che non fanno parte della classe dominante (se non anche ai borghesi "alienati" nelle loro funzioni di capitalisti). Ci sembra scientifica la definizione di sfruttamento a partire dalla formazione di plus-valore tramite l'attività collettiva del proletariato, la qual cosa permette di vedere lo sfruttamento solo nel campo della produzione. Dobbiamo sottolineare che tale definizione di sfruttamento non è per niente limitata ai ritmi e ai modi di lavoro ma congloba anche l'altro aspetto del rapporto capitalista: la ripartizione del tempo di lavoro in tempo necessario (pagato) e in super-lavoro (non pagato). Questa ripartizione non esiste nei quartieri e fra i commercianti, ma solo nei luoghi di lavoro (contrariamente alle apparenze, secondo le quali i prezzi sono fissati dal mercato, questi ultimi sono invece determinati dai prezzi di produzione che a loro volta sono legati alla composizione del capitale e al tasso di sfruttamento che si stabilisce nella produzione). E' chiaro che la ripartizione in questione è un mezzo sociale e che le situazioni individuali restano differenti. Ma per l'azione di classe è il mezzo che conta e non delle situazioni individuali che non sono raffrontabili fra di loro e quindi non addizionabili in una unità comune. Ne consegue che noi analizziamo i processi rivoluzionari come la formazione di nuovi rapporti sociali nel proletariato e non come una accumulazione di stati di coscienza soggettivi che il proletario può portarsi dietro quando lascia la fabbrica (questo problema è sviluppato in "I rapporti sociali comunisti", "Lutte de classe" settembre-ottobre 1974).

Non possiamo quindi sottoscrivere la tesi secondo la quale il capitalismo unifica le condizioni di riproduzione della forza-lavoro alle condizioni generali della produzione capitalista. E' vero che le condizioni della riproduzione sono determinate da quelle della produzione (un testo a questo riguardo è in preparazione: cfr. "Lutte de classe" novembre 1974). Ma, per quanto ne sappiamo, la riproduzione (nutritiva, sessuale ecc.) continua ad andare avanti secondo metodi che non sono fondamentalmente cambiati dall'età della pietra e che non hanno niente a che vedere con quelli che esistono nelle fabbriche capitaliste. Mentre la produzione è socializzata all'estremo, la riproduzione, al contrario, è più che mai privatizzata e per questo incapace di dare luogo a rapporti sociali comunisti. Quindi concludiamo che le condizioni di vita del proletariato fuori dalla fabbrica non offrono nessun punto d'appoggio per una azione di classe contro il capitale e non possono che dare terreno a manovre riformiste (il resoconto delle occupazioni di Milano, pubblicato nel supplemento a "Collegamenti" n. 4, non va per niente contro questa affermazione).

Va da se che le rivendicazioni operaie sono alimentate dall'evoluzione del livello materiale di vita del proletariato e non solo delle condizioni di lavoro. Ma, oltre che dal livello di vita, come è stato detto prima, sono regolate anche dalla riuscita delle lotte di fabbrica, le uniche che forniscono una base materiale allo svolgimento dell'azione di classe del proletariato, per lo sviluppo di nuovi rapporti sociali del proletariato.

Non pensiamo che questa analisi sia invalidata dall'esistenza di settori "marginali" più o meno importanti nell'ambito della forza-lavoro. Qualsiasi sia l'importanza relativa di questi settori, il capitale è comunque caratterizzato dalla tendenza alla concentrazione, e quindi i grandi poli giocano più che mai un ruolo decisivo nella formazione di plus-valore. E' solamente nelle grandi concentrazioni operaie che possono svilupparsi i rapporti sociali caratteristici del proletariato; le forme ereditate dal passato (anche se sotto una vernice "modernità") non possono portare che a rapporti sociali di tipo arcaico.

L'ambiguità della situazione sociale italiana ci sembra dovuta, in buona parte, all'esistenza di molti settori arretrati che creano dei problemi particolari per il capitalismo ed anche alimentano le illusioni della possibilità di azioni operaie "non ortodosse". Questo appare chiaramente dal testo del CCRAP soprattutto quando riconoscono che l'attuale situazione degli alloggi è transitoria e che gli affitti finiranno per tornare "sopportabili" (è evidente, in effetti, che ciò che non è sopportabile non sarà sopportato, o dal capitale, o dalla classe operaia). E' sempre pericoloso determinare una tattica di lotta partendo da situazioni locali. Il problema della rivoluzione è mondiale e dipende, per la sua soluzione, dal comportamento del proletariato mondiale nel suo insieme. Le soluzioni nazionali sono sempre state l'anticamera del riformismo e della contro-rivoluzione.

Ci sembra poi basato su di un malinteso il tentativo di generalizzare la situazione italiana conglobando i neri americani e i lavoratori immigrati in Europa nella categoria dei "lavoratori marginali", categoria che comprende un po' di tutto. I lavoratori in causa, lungi dall'essere "marginali", forniscono, al contrario, un elemento essenziale di quello che forma oggi il cuore stesso del proletariato industriale: gli operai direttamente produttivi della grande industria taylorizzata. E' a questo titolo che sono chiamati a giocare un ruolo essenziale nel processo rivoluzionario e non perché forniscono anche il più grosso contingente dell'esercito di riserva industriale (disoccupati e lavoratori "marginali" in genere). E' vero, d'altra parte, che l'instabilità crescente della popolazione operaia (rotazione degli incarichi) crea dei problemi particolari per l'organizzazione di fabbrica e soprattutto per il mantenimento di collegamenti stabili. Ma non bisogna dimenticare che questa situazione presenta anche dei vantaggi importanti: gli operai sono sempre più intercambiabili e quindi poco importi che degli individui siano rimpiazzati da altri. In ogni caso è la situazione complessiva della fabbrica che è decisiva e i nuovi venuti fanno presto ad adottare il comportamento di coloro che rimpiazzano.

In complesso piuttosto che fissarsi su settori marginali della forza-lavoro ci sembra che l'analisi della composizione attuale di classe dovrebbe mettere in evidenza il ruolo cruciale della frazione centrale del proletariato, la sua importanza decisiva nello sviluppo della crisi del capitalismo e l'incapacità di quest'ultimo di distruggere questo "nucleo duro" della classe operaia, senza poterlo rimpiazzare nel suo ruolo di creatore di plus-valore. E' in questa direzione che noi contiamo di orientare il nostro lavoro sulle origini e l'evoluzione dell'attuale sistema di produzione.

7 novembre 1974