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L'aspetto positivo e indiscutibile dell'imponente sciopero degli elettromeccanici (che si avvia alla conclusione mentre scriviamo e purtroppo si sarà forse esaurito quando il giornale sarà uscito) è la magnifica combattività di cui gli operai hanno dato prova, conducendo l'agitazione in masse compatte e affrontando non solo i padroni, ma la polizia in episodi che i sindacati possono ben deplorare, perché non si accordano col loro legalitarismo, né col loro metodo di lotta in ordine sparso ed alla chetichella, ma che appunto perciò acquistano un sapore di sfida aperta alla politica conformista e codina dei bonzi bianchi, gialli e rosa, e dimostrano che lo sciopero, quando non è preventivamente limitato nel tempo e nelle modalità di sviluppo, trova schierati dietro di sé, senza defezioni, tutti i lavoratori.

Ma appunto questa splendida dimostrazione di combattività e di compattezza rende ancor più disgustoso l'atteggiamento di quelle organizzazioni sindacali cui spetterebbe di dirigere la lotta e di condurla fino in fondo. Esse hanno subito lo sciopero; hanno fatto l'impossibile per concluderlo al più presto: tutto hanno messo in opera per impedire che dilagasse e, quindi, desse i frutti che gli operai si attendevano. Gli elettromeccanici non potranno non tirarne le conseguenze per l'avvenire; la loro lotta ha rimesso sul tappeto qualcosa di più di rivendicazioni salariali o "normative"; ha riproposto i grandi, secolari temi della lotta di classe.

Subendo l'iniziativa dell'americanizzata UIL, si è fatto uno sciopero per settore col pretesto del diverso andamento e sviluppo dei singoli rami dell'industria; pretesto fasullo, perché, entro lo stesso settore le differenze di consistenza economica e produttiva sono profonde; pretesto antiproletario, perché isola gli operai di una categoria da quelli delle altre, lega le loro rivendicazioni alle vicissitudini e alle sorti della loro industria e sancisce la formazione di "aristocrazie operaie" in condizioni di salario e di lavoro privilegiate.

Cominciati a muoversi per settore, vi si è rimasti chiusi come in una volontaria prigione (volontaria per i sindacati, non certo per gli scioperanti, che si attendevano ben altro). Le manifestazioni di solidarietà da parte di altri "settori" non erano mancate: citiamo soltanto, a Milano, i tranvieri fin dall'inizio, i metalmeccanici poi. Non si è voluto usarle come arma di combattimento, i sindacati avevano preannunziato l'entrata in agitazione dei siderurgici e dei metalmeccanici; appena la lotta degli elettromeccanici si è avvicinata al punto cruciale, si sono rimangiati la promessa. Nella settimana prima di Natale, gli addetti alle aziende elettriche municipali sono entrate in sciopero: altre categorie si agitavano: ma i "settori" funzionano come compartimenti stagni, ognuno fa la sua lotta, tutti "coesistono" senza fondersi. Le condizioni per l'allargamento dell'agitazione esistevano: orrore! In nome dell'"unità sindacale" si perpetua la divisione dei lavoratori nella lotta combattuta.

Entra in scena il ministro del lavoro: i sindacati forzano i tempi per non lasciarsi sfuggir l'occasione, accettano di trattare con l'Intersind, e concludono le trattative a tamburo battente. Risultato: la lotta per settore chiuso si frantuma in due nuovi sottosettori, quello delle aziende IRI che tornano al lavoro avendo — a sentire i sindacati — "ottenuto vittoria"; quello delle aziende private in cui gli industriali non cedono sulla questione di principio, e gli operai rimangono in sciopero. Due piccioni con una fava, per i sindacati: si scampa il pericolo di un'estensione e un prolungamento dello sciopero in massa; si dà una patente di progressismo al governo, e si rinverdisce la tesi dello Stato-mediatore e dell'IRI suo profeta.

Ha almeno, l'accordo con le aziende a partecipazione statale, il significato di una vittoria? I sindacati hanno un bel cantare vittoria: l'accordo concluso non ha nulla a che vedere con le rivendicazioni di partenza; offre uno squallido aumento delle retribuzioni del 5% dal 1° gennaio e del 2% fra un anno, laddove si era partiti col chiedere un adeguamento dei salari in base all'aumento della produttività "settoriale" (accidenti a questi settori!); concede - bontà sua - un premio "una tantum" che sarà inghiottito dalle spese sostenute durante lo sciopero, esclude ogni definizione dei problemi "normativi" (qualifiche, ecc) sui quali si era tanto insistito all'inizio; introduce una cosiddetta riduzione del tempo di lavoro di... un'ora e mezza alla settimana, che sarà pagata con un acceleramento dei ritmi di produzione; e infine, somma vergogna, fissa a tutte lettere il principio, sempre nel famigerato settore, della TREGUA SINDACALE per due anni (un impegno dello stesso genere era stato firmato poco prima nei grandi complessi siderurgici). Uno sciopero di oltre un mese per "ottenere" che per due anni non si scioperi più sebbene i risultati ottenuti non siano in nessun caso quelli che si era proposti interrompendo il lavoro! E questa sarebbe una vittoria?

Il momento della firma dell'accordo con l'Intersind segna anche la fine, di fatto se non nella forma, del grandioso sciopero degli elettromeccanici: i giorni successivi vedono le singole aziende private una dopo l'altra, alla spicciolata, concludere accordi che la Confindustria — la quale si era irrigidita sulla questione di principio, non sul merito delle "concessioni", e, anche sotto questo aspetto, ha avuto una facile partita vinta — può ben vantare ispirati alle sue idee e ai suoi interessi perché di carattere "esclusivamente retributivo, con esclusione assoluta di ogni anche indiretto riferimento a questioni normative come l'orario di lavoro".

Iniziatasi spezzettata l'agitazione si conclude con nuove frammentazioni: gli aumenti salariali sono gli stessi (in qualche caso anzi inferiori) a quelli che gli industriali erano in partenza disposti ad accordare; le questioni normative sono risolte solo in parte (e una parte minima) nel caso delle aziende IRI, lasciate aperte nelle altre; ma in tutte vige il sacro principio della tregua!

E poiché si è in clima natalizio, a Milano gli stessi scioperanti che si erano battuti nelle strade con la polizia, sono stati convocati in Piazza per ricevere dal Bambin Gesù e dalla patriottica cittadinanza i pacchi-dono e, si può ben immaginare, la benedizione arcivescovile. Vadano a casa ora e lavorino sodo, se vogliono recuperare il tempo perduto in azioni da scavezzacolli!

Così si è archiviata una magnifica pagina di battaglie proletarie in cui giovani e anziani, uomini e donne (le donne, spesso, più degli uomini) si erano battuti con unanimità meravigliosa. Noi dicemmo subito che l'agitazione o si generalizzava o sarebbe finita in un cul di sacco a tutto vantaggio della classe padronale: la risposta è venuta subito dai sindacati – siete complici... dei padroni e servi... della polizia! Gli elettromeccanici avranno modo di riflettere amaramente, nei prossimi mesi di purgatorio, da che parte stava la ragione: dalla parte di un secolo di battaglie proletarie, o da quella di un trentennio di capitolazioni di fronte al nemico. E di concludere che bisogna tornare nel solco storico della lotta di classe, non di settore, dell'assalto alla cittadella capitalista, non della impossibile conciliazione fra le classi.

il programma comunista n°24 del 1960