Circolo Rosa Luxemburg
Lunedì 20 Febbraio alle ore 21 DIBATTITO nella sede del circolo, Genova - Sampierdarena via Buranello 34/6
Nonostante la presenza di un forte schieramento di sinistra, il sindacato in Italia sta subendo la stessa trasformazione riscontrata negli altri paesi europei. Anche in Italia il Sindacato si subordina alla necessità del grande capitale di programmare il proprio sviluppo e con esso la componente principale, il salario, sì da mantenerlo ad un livello utile per lo sviluppo degli investimenti. In sostanza le forze capitalistiche chiamano tutte le altre forze sociali alla costruzione della "grande società" e il sindacato, in "rappresentanza" della classe operaia, aderisce a questo richiamo. Che cosa sia in prospettiva questa grande società lo si può vedere nella società americana e, immediatamente, negli accordi internazionali e nazionali, tendenti, a concentrare la grande industria europea.
SINDACATO E PROGRAMMAZIONE
In Italia l'inserimento del sindacato nella programmazione coincide con l'affermazione dell'autonomia sindacale, mentre l'inserimento nella programmazione è formalmente negato, in realtà l'atteggiamento assunto dalla C.G.I.L. riguardo al voto parlamentare sul piano Pieraccini e quindi lo svincolamento dei deputati sindacalisti dalle decisioni dei rispettivi partiti dimostra quale significato assuma l'autonomia. Infatti, dopo le dichiarazioni di Novella sono venute a cadere le accuse del socialista Boni, il quale aveva lamentato che i parlamentari sindacalisti votassero secondo le scelte del proprio partito e non secondo le scelte del sindacato in una materia come la programmazione, la sola eccezione è costituita dai deputati sindacalisti del P.S.I.U.P., i quali sostengono una maggiore autonomia dal governo. Dopo le dichiarazioni di Novella anche la C.G.I.L. si è ufficialmente affiancata alla C.I.S.L. e alla U.I.L. nell'accettazione del Piano Pieraccini. I sindacati in tal modo hanno realizzato una prima autonomia dai partiti, ma la formula aggiunge anche "autonomia dal governo e dalla classe imprenditoriale". Una prova importante per verificare quale sia l'autonomia dal governo e dalla classe imprenditoriale ci è stata fornita dall'ultima lotta contrattuale dei metallurgici.
SULLA LOTTA CONTRATTUALE
Il contratto scade nell'ottobre del 1965, anno di congiuntura sfavorevole che vede licenziamenti, blocco salariale, produttività crescente. Da più parti si parla di politica dei redditi, cioè di programmare aumenti salariali che non superino globalmente l'incremento della produttività media nazionale. La FIOM mette in rilievo gli aumenti salariali, la riduzione di orario, i miglioramenti normativi; la C.I.S.L. punta sulla parità normativa fra operai e impiegati; la U.I.L. si avvicina alla piattaforma FIOM. Dopo vari incontri a livello nazionale si arriva alla piattaforma rivendicativa unitaria, osannata da tutti i sindacati e da tutti i partiti. Tale piattaforma mette in rilievo le questioni normative (parità impiegati-operai) e le questioni della presenza sindacale nell'azienda. Per la riduzione dell'orario si legge: "riduzione dell'orario di lavoro in relazione alle caratteristiche tecnologiche di ciascun settore" e per la questione salariale "modifiche alle tabelle salariali, rivendicazioni particolari".
Lo scarso rilevo dato agli obbiettivi più importanti crea malcontento fra gli attivisti sindacali e fra gli operai, i quali, sin dall'inizio, rilevano il carattere rinunciatario della piattaforma unitaria.
La lotta inizia il 18 gennaio 1966. In marzo abbiamo l'accordo con le piccole e madie aziende. In questa occasione l'"Unità" ha parlato di grande vittoria operaia e di rottura del fronte padronale. Questo contratto con la Confapi, che avrebbe dovuto rappresentare la base minima di accordo per tutta la categoria, prevede l'aumento salariale del 10% e globalmente del 20%, oltre alla risoluzione delle questioni di presenza sindacale. Va però notato che nella parte finale del contratto, con riferimento ai contratti di categoria ancora da firmare, in una postilla si precisava che se i datori di lavoro avessero concluso con i sindacati accordi meno onerosi, si intendevano validi questi ultimi. Questa nota, pur enunciando una cosa abbastanza ovvia, non viene pubblicata da nessun giornale, giacché contraddice quanto si era appena detto, cioè, che l'accordo Confapi dovesse appunto costituire la base minima di accordo. A proposito della "vittoria" contrattuale con le piccole aziende, vorremo far rilevare che in una riunione di attivisti sindacali di una fabbrica di Genova, tenuta dopo la conclusione dell'accordo con le aziende I.R.I., il segretario provinciale della FIOM parlando dell'accordo Confapi, disse che i padroni avevano firmato le proposte dei sindacati a occhi chiusi. Di qui nasce il sospetto che le piccole e medie aziende, che nella precedente lotta contrattuale si erano dimostrate delle vere palle di piombo al piede della Confindustria, in quanto, mal sopportando una lotta lunga, sollecitavano continuamente trattative e accordi separati siano state indotte a firmare l'accordo dalla Confindustria stessa. Bisogna infatti tener presente che i rapporti organici di subordinazione e di integrazione che indubbiamente intercorrono fra piccole-medie aziende e grande industria, permettono a quest'ultima, in certe situazioni, di riversare parte del lavoro su di esse per far fronte a certe scadenze, senza contare che la firma è avvenuta dopo i primi scioperi e non dopo una lotta dura e lunga. Non si tratta del resto di un'impressione isolata: "Mondo Nuovo", il settimanale del PSIUP, dopo la conclusione della lotta dei metallurgici, scriveva: "L'accordo con la Confapi ha appena scalfito la stretta unità del fronte avversario e ha dimostrato che esso corrisponde a condizioni del tutto particolari di un settore di piccole e medie aziende e non era effetto di profonde divisioni nello schieramento padronale".
La lotta, dopo un inizio abbastanza vivace, si è trascinata inutilmente fino a novembre. Le richieste avanzate dagli operai di scioperi improvvisi sono state regolarmente respinte dai sindacati in favore di scioperi programmati con lunghi preavvisi. Gli scioperi a singhiozzo in alcune fabbriche milanesi, nonostante la loro efficacia, non sono stati generalizzati. Le minacce di un ricorso allo sciopero generale, i propositi di non trattare senza garanzie, sono rimasti allo stadio di pure dichiarazioni verbali. Inoltre nelle ripetute fasi delle trattative non solo cessava ogni forma di lotta, ma veniva ripreso il lavoro straordinario, cosicché le aziende pubbliche e private potevano recuperare quanto avessero perduto nei periodi di sciopero. Queste forme inadeguate di lotta hanno provocato reazioni negli operai manifestatesi in vari modi e occasioni: interventi critici e proteste nelle assemblee, azioni spontanee nel corso di comizi e di cortei. Così si arriva all'accordo con l'IRI a novembre con la Confindustria a dicembre. Come si vede la rottura fra le aziende private e statali è avvenuta quando si era alla fine della lotta, cioè, quando gli accordi erano di fatto già conclusi.
IL CONTRATTO IRI NELLE SUE LINEE ESSENZIALI
- Onere generale dell'accordo: 14,5% circa;
- aumento salariale del 5%, più un aumento dei parametri del 2,14% in media;
- istituzione di una nuova categoria operaia: O.S.P.(operaio specializzato provetto);
- riduzione dell'orario: mezz'ora dal 1 novembre 1967 e mezz'ora dal 1 novembre 1968;
- parità impiegati-operai: l'indennità di anzianità è stata portata a 100 ore l'anno, per l'anzianità fino a 10 anni; a 150 ore per quelle oltre i 10 anni (questa indennità era prima di 120 ore annuali); scatti di anzianità: i due scatti dell'1,5% (del precedente contratto) sono rivalutati al 2%. (Va notato che sono stati aboliti i premi di anzianità agli operai e non c'è stato nessun miglioramento nell'assistenza malattie, punto quest'ultimo che rappresentava per i sindacati una rivendicazione fondamentale).
- parte normativa:
comitati tecnici paritetici per cottimi e qualifiche, il cui intervento è limitato alle vertenze individuali o plurime con poteri consultivi. Il potere contrattuale è delle organizzazioni provinciali. I componenti dei comitati sono designati dall'azienda e dalle organizzazioni sindacali locali.
Nel caso di trasformazioni tecnologiche saranno consultati i sindacati nazionali solo se comporteranno ripercussioni sui livelli dell'occupazione o sull'orario di lavoro.
Tre rappresentanti sindacali saranno inclusi nei comitati antinfortunistici aziendali.
Sono istituiti comitati di settore per i lavori disagiati.
I premi di produzione saranno contrattati (nel contratto del settore privato è prevista una sola contrattazione in tre anni e nei limiti di aumento da 0,5 a 1,5% dei minimi salar.)
- diritti sindacali:
le commissioni tecniche e paritetiche possono disporre di una sede dentro l'azienda; sindacati di una sede vicina all'azienda e da questa pagata.
Sono concessi permessi retribuiti ai lavoratori che partecipano alle trattative.
Le quote sindacali saranno trattenute dalle aziende in seguito a referendum.
- Validità del contratto: dal 1 novembre 1966 al 31 ottobre '69.
LA POLITICA DEI DIRITTI
La prima cosa che viene fuori senza equivoci è che nella pratica la politica dei redditi è passata. Questo è ammesso, anche se con una certa reticenza, da "Mondo Nuovo": "E' poi vero-in esso si scrive-che la politica dei redditi non è passata? A noi sembra piuttosto che, respinta dalla porta, essa sia rientrata dalla finestra. Non è passata come principio e come metodo, ma è stata subita per quanto riguarda i salari...". Dall'ottobre del '65 all'ottobre del '66 vi è stato un rigido blocco salariale, chiesto e ottenuto dal padronato pubblico e privato; inoltre nel '66, indicato dalle organizzazioni del movimento operaio come l'anno della riscossa operaia", si registra la diminuzione di 180.000 unità già occupate nell'industria mentre 300.000 giovani non trovano lavoro, per contro la produzione aumenta dell'11% e la produttività dell'8%. Se aggiungiamo quest'anno, trascorso tra lotte e trattative, ai tre anni inclusi nel contratto, ne viene fuori che l'onere annuo per le aziende si riduce a meno del 4%; se pensiamo poi che una parte è assorbita dagli aumenti delle trattenute sociali, l'aumento del 4% si riduce ulteriormente. Anche se aggiungiamo eventuali aumenti dei premi di produzione, possiamo essere sicuri che ci manteniamo al di sotto delle previsioni fatte dai tecnici della programmazione. Cosa ancora più grave, però, è che un contratto così misero sia stato ottenuto in un periodo di ripresa economica e produttiva e che esso vincoli gli operai per una buona parte di questo periodo. E' strano come tutti si ricordino, sindacati e padroni, dell'esistenza di un ciclo economico solo nel periodo di congiuntura sfavorevole e se ne dimentichino subito dopo.
Il rifiuto dell'accordo quadro e l'affermazione della contrattazione aziendale vengono considerati i maggiori successi della lotta contrattuale. Sul primo aspetto va rilevato che la Confindustria, con la richiesta dell'accordo quadro, propugnato del resto anche dalla CISL, si è messa all'offensiva ponendo all'attenzione generale una questione essenziale per la politica di piano. Infatti l'accordo quadro presuppone che la fissazione degli incrementi salariali sia determinata nazionalmente dalle confederazioni e che, su questa base, si regolino i contratti di categoria. Questo tipo di accordo, che si configura organicamente nella politica dei redditi, è stato respinto; ma le percentuali di incremento salariale si sono uniformate intorno al 5%! La politica dei redditi, realizzata di fatto, è stata soltanto privata dello strumento della sua regolamentazione.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, cioé la contrattazione aziendale, è utile ricordare che anche sindacalisti della FIOM, in politica "garbata" coi dirigenti dell'Intersind, mentre elogiavano il comportamento dell'Intersind, nell'ultima fase delle trattative, garantivano che nel futuro i sindacati avrebbero mantenuto la stessa "modestia rivendicativa" e responsabilità nel considerare le condizioni produttive delle aziende, come è stato fatto in occasione del contratto (vedi l'articolo di Boni sull'organo ufficiale della CGIL). In tal modo le aziende IRI possono continuare indisturbate nella loro politica salariale di depressione del mercato del lavoro, riservando il loro ruolo pilota nella costruzione di rapporti "esemplari" con i sindacati, consultandoli nei comitati paritetici, ritirando le quote e trovando un posticino per le sedi. Una serie di attività "esemplari" che costano poco o niente alle aziende IRI, nonostante vi siano sindacalisti convinti che le "vittorie di principio" frutteranno anche qualche soldo alla busta paga. La burocrazia sindacale si vuole garantire, con queste misure, dalle fluttuazioni della fiducia operaia e si guarda bene dal costruire rapporti che servano di esempio all'industria privata nel campo salariale.
SULL'AUTONOMIA
Abbiamo quindi due prove importanti pur giudicare le novità del sindacato autonomo. L'atteggiamento parlamentare ci ha indicato la cosiddetta autonomia dai partiti; l'eccezione dei sindacalisti del PSIUP, per quanto significativa, non è purtroppo tale da modificare il quadro generale. L'atteggiamento del sindacato nella lotta contrattuale ha, da parte sua, posto seri dubbi circa l'autonomia dalla classe imprenditoriale, questi dubbi ci portano a riesaminare il significato dell'autonomia dei partiti. Si tratta di un'autonomia contrastata dai partiti, in particolare dal PCI? Se si leggono le pagine dedicate dalla stampa comunista all'autonomia sindacale, l'impressione è uniforme; i comunisti, almeno al vertice, sono pienamente soddisfatti di questa autonomia. Sentiamo Tatò su "Critica Marxista": "Oggi questo processo di mutamento e di avanzata delle condizioni storico-politiche e di maturazione soggettiva del sindacato e del partito si è compiuta, è sotto gli occhi di tutti. Oggi non c'è più la necessità storica che sia il partito proletario a presidiare l'indipendenza del sindacato dal sistema capitalistico, oggi viene fuori con tutta chiarezza, anche sul terreno di principio, che il sindacato è adulto e sperimentato e maturo da poter vivere la propria autonomia rispetto a qualsiasi partito, proprio perchè il solido, concreto stabilirsi di questa posizione non comporta (come invece sappiamo comportava ieri) che esso perda la sua indipendenza dal sistema". Secondo Tatò, dunque, le tesi di Gramsci sul sindacato sono state superate dallo sviluppo storico, ma è veramente così? Gramsci aveva rilevato: "il sindacato è un elemento della legalità e deve proporsi di farla rispettare ai suoi organizzati... il sindacato per la sua forma burocratica, tende a non lasciare che la guerra di classe venga mai scatenata... Nella realtà italiana il funzionario sindacale concepisce la legalità industriale come una perpetuità egli troppo spesso la difende da un punto di vista del proprietario. Egli vede solo caos e arbitrio in tutto quanto succede nella massa operaia: egli non universalizza l'atto di ribellione alla disciplina capitalistica come ribellione, ma come materialità dell'atto che può essere in sé e per sé triviale... In queste condizioni la disciplina non può essere che un servizio reso al capitale". Sono veramente superate queste tesi gramsciane? O non colgono proprio nella sua pienezza la realtà attuale del sindacato? Chi può negare che il sindacato abbia rafforzato la sua forma burocratica? Quando agli organizzati viene negata, non diciamo la facoltà di porre gli obiettivi e di farli rispettare, ma si nega persino la facoltà di scegliere i metodi di lotta, che cosa significano tali negazioni se non "burocrazia", dominio cioè del funzionario sindacale? Quando agli organizzati si nega ogni forma spontanea di protesta o di lotta, che cosa significa ciò se non il timore della guerra di classe? Quando si "telefonano" gli scioperi, li si programmano in modo di dare tempo alla classe padronale di organizzarsi, che cosa significa tutto ciò se non difendere "la legalità industriale" dal punto di vista del proprietario? Come spiegare, del resto, la diffidenza operaia verso il sindacato, il vuoto che si crea attorno ai funzionari sindacali? Non si spiega forse col fatto che gli operai sanno di non poter far valere le loro idee e le loro esperienze, consapevoli che il loro appoggio è richiesto soltanto per far avallare un compromesso e legalizzarlo?
Guardiamo l'ultimo contratto metallurgico. Può darsi che gli operai socialisti abbiano accettato consapevolmente una limitazione all'incremento salariale, ma quanta parte sono della classe operaia? Gli operai comunisti l'hanno osteggiata. Più in generale, è realistico pensare che gli operai delle aziende IRI, che hanno salari assolutamente insufficienti, abbiano potuto accettare tale limitazione? Il contratto non riflette certamente la volontà autonoma degli operai. Ma non basta volere, esistono senz'altro rapporti di forza. Si può dire allora che il contratto metallurgico rispecchi i rapporti di forza attuali? Se esaminiamo la lotta, vediamo che è stata mal condotta, peggio conclusa. E' possibile che gli operai metallurgici, con una ricca tradizione di lotte e di esperienze politiche dietro le spalle, non sappiano fare di meglio? Si parla di una media di due anni per reintegrare le perdite nette in salario, avutesi durante la lotta contrattuale. La classe operaia è dunque a un livello così basso? La spiegazione è altrove: nella crisi che investe il rapporto fra la classe e le sue organizzazioni. Qui è la novità della situazione.
PARTITO E SINDACATO
Ciò che è mutato rispetto ai tempi di Gramsci va ricercato non nella natura del sindacato ma in quella del partito. Un tempo l'operaio si rivolgeva al partito per criticare i limiti del sindacato, si organizzava nel partito per modificare anche il sindacato. Oggi il partito parla all'operaio un linguaggio nuovo, parla di raggiunta maturità sindacale; l'operaio, anzi, è sicuro che troverà nel partito i migliori difensori d'ufficio del sindacato. L'isolamento operaio è in tal modo completo. La critica operaia, per raggiungere, un risultato utile, deve oggi passare non solo la trincea sindacale ma anche quella del partito. In genere la critica che passa la prima si infrange nella seconda.
I limiti del sindacato ci hanno portato naturalmente alle soglie del problema del partito, di un organo della critica ove gli operai possano far valere la loro ricca esperienza politica. A questo livello la spontaneità è quasi inesistente: gli operai, anche i più critici, temono di staccarsi dall'organizzazione, col risultato che la loro esperienza rimane inutilizzata e non circola, né riescono a valersene nel partito dove un'esperienza politica operaia non serve più. Il problema più urgente oggi è proprio questo: come impedire che questo patrimonio di esperienze politiche si esaurisca nelle polemiche individuali e come agire perchè esso divenga il fondamento di una nuova costruzione politica.
Genova, febbraio 1967
[tratto da www.nelvento.net]