Quando le condizioni economiche peggiorano, quando i governi non riescono più a sfamare le popolazioni, allora scattano inevitabilmente le rivolte, i saccheggi e le manifestazioni.
Dalla rivolta delle banlieue del 2005 si è passati, attraverso la Primavera araba, agli indignados in Spagna e poi ad Occupy Wall Street negli Stati Uniti. L'apice di quel "ciclo" è stato raggiunto con la giornata internazionale di manifestazioni del 15 ottobre 2011, che in Italia ha prodotto violenti scontri in piazza San Giovanni a Roma.
Negli ultimi mesi si è aperta ad Hong Kong una nuova stagione di rivolta globale. La protesta, nata in difesa dell'autonomia dell'ex colonia britannica, è subito trascesa in qualcos'altro, vedendo in prima linea una generazione di giovani senza riserve e senza futuro (quelli dell'economia dei lavoretti, tanto per capirci). Il movimento di Hong Kong, che si ricollega idealmente a Occupy Central e Umbrella Movement, funziona a rete, è mobile, evita le trappole tese dalla polizia, e porta avanti azioni dirompenti come l'occupazione del Parlamento, il blocco delle stazioni della metropolitana e quello dell'aeroporto internazionale, costringendo i sindacati ad accodarsi e ad indire scioperi. Bisogna essere come l'acqua, dicono i manifestanti citando Bruce Lee: "Devi essere senza contorni, senza forma, come l'acqua. Perché l'acqua può fluire o può schiacciare." Per coordinarsi i giovani usano applicazioni di messaggistica istantanea che il governo non può sorvegliare né bloccare. Già gli egiziani di piazza Tahrir avevano messo in piedi una rete Mesh per neutralizzare il blocco governativo delle comunicazioni; successivamente ci avevano provato anche gli americani di Occupy Wall Street, costruendo la Freedom Tower a Zuccotti Park.
In realtà, i primi a muoversi sono stati i Gilet Gialli in Francia, che sull'onda del rincaro dei prezzi del carburante avevano cominciato a scendere in piazza ogni sabato, a Parigi e in altre città, scontrandosi con la polizia e obbligando, anche in questo caso, i sindacati ad accodarsi al movimento.
In Africa e in Medioriente, invece, la collera sociale non si è mai sopita: negli ultimi tempi, significativi movimenti di piazza sono sorti in Marocco, Algeria, Tunisia, Sudan, e Iran, dove la scintilla è stata il raddoppio del prezzo delle uova. In Iraq la recente rivolta contro il carovita ha lasciato sul terreno un centinaio di morti e svariate migliaia di feriti, in Giordania lo sciopero degli insegnanti ha bloccato quasi tutte le scuole del regno hashemita, e in Libano è sorto un movimento in reazione ad una tassa sulle telefonate via Whatsapp: mentre i rivoltosi invitavano la popolazione a scendere per le strade e organizzare uno sciopero generale, l'esercito libanese interveniva per riaprire i principali snodi stradali bloccati dai manifestanti.
Anche il continente sudamericano è scosso dalle proteste: prima gli scioperi in Argentina, poi le manifestazioni antigovernative ad Haiti, quelle contro la privatizzazione del sistema sanitario ed educativo in Honduras o contro i tagli all'istruzione in Brasile, e quelle in Ecuador, durante le quali gli indigeni hanno fatto irruzione nell'Assemblea nazionale a Quito costringendo il governo a scappare dalla capitale. E poi ancora in Cile, contro l'aumento del costo dei biglietti, dove si sono mobilitati anche i sindacati portuali e minerari in occasione dello sciopero generale di 24 ore, e dove in seguito ai saccheggi dei supermercati il governo ha dispiegato l'esercito per le strade dichiarando il coprifuoco. Una misura analoga è stata adottata anche dall'Uruguay che con la riforma "Vivir sin miedo" ha decretato la militarizzazione delle piazze provocando immediate reazioni di collera. In tutti questi casi, la borghesia ha toccato con mano che l'assedio dei senza riserve alle cittadelle del capitalismo può sovente trasformarsi in saccheggi ed espropri generalizzati.
Le rivolte si stanno sincronizzando a livello planetario alla ricerca di un linguaggio comune per parlarsi. Non a caso, dopo l'occupazione dell'aeroporto internazionale di Hong Kong è arrivato il turno di quello di Barcellona.
Che ci sia un nesso tra quanto sta succedendo nelle piazze globali e le dichiarazioni del FMI sulla crescita mondiale, mai così bassa dalla crisi del 2008? Per noi è ovvio che il difetto di accumulazione, ovvero la crisi di riproduzione del capitale, si riflette sulla sovrastruttura, provocando da una parte il collasso degli stati nazionali, dall'altra reazioni sociali di ampia portata che vanno dal cosiddetto populismo alla ribellione aperta contro lo stato di cose presente. L'ex governatore della Banca d'Inghilterra, Mervyn King, recentemente ha affermato dalle pagine del Guardian che un'altra crisi economica e finanziaria sarebbe devastante per la tenuta del sistema. In effetti, se scoppiasse la bolla dei derivati finanziari, il cui valore ammonta a 2,2 milioni di miliardi di dollari (33 volte il Pil mondiale), il rischio di una catastrofe sistemica sarebbe reale.
Ma forse l'osservazione più importante da fare riguarda la transizione di fase che stiamo vivendo, che parte quantomeno dalla rivolta parigina nel 2005 e arriva ai giorni nostri. La ruota della storia non torna indietro, il processo in corso è irreversibile: il dialogo fra le classi sta venendo meno, e con esso la presa sulla società del modello sindacale corporativo: è morto il "tavolo delle trattative", e il pacifismo sta scomparendo dalle piazze sotto il peso dei mezzi blindati, dei candelotti lacrimogeni e dei proiettili - non sempre di gomma - della polizia.
Quella che si sta formando a livello globale è una contro-società che non si autoconvoca più in congressi o tavole rotonde per confrontare ideologie od opinioni contrastanti, ma che semplicemente esiste per sé, in lotta contro il simbolico 1%, che si pappa tutto e ci costringe a una vita di miseria e precarietà.
Lo scenario mondiale è in continua evoluzione e, da qualche mese a questa parte, stiamo assistendo a potenti accelerazioni dei fenomeni sociali. Il futuro può apparire drammatico e preoccupante ma, come diceva Occupy Wall Street, siamo convinti che "ci sono più ragioni per l'entusiasmo che per la paura".