Lotte in corso. INTERNAZIONALE
L'inflazione dell'Eurozona in ottobre ha toccato il massimo storico del 10,7%, masse di senza-riserve cominciano a muoversi per difendere le loro condizioni di vita
Mercoledì 9 novembre in Belgio si è tenuto uno sciopero generale contro l'impennata dei prezzi e per chiedere aumenti salariali. Numerosi blocchi sono stati organizzati in aree industriali e commerciali del paese, e interruzioni del lavoro hanno interessato tutti i settori: industria, trasporti, aeroporti, ospedali, ecc.
Nella stessa giornata anche in Grecia è iniziato uno sciopero generale di 24 ore contro il carovita (l'inflazione nel settembre scorso ha sfiorato il 12%). "L'alto costo della vita è insopportabile… chiediamo salari più alti e protezione sociale per tutti", riporta il manifesto della Confederazione generale dei lavoratori greci GSEE. Il corteo, che ha raccolto decine di migliaia di manifestanti e ha sfilato per le strade della capitale, è stato organizzato dai sindacati ma ha visto anche la partecipazione di gruppi anarchici e organizzazioni studentesche. L'economia è rimasta paralizzata e violenti scontri tra manifestanti e polizia hanno avuto luogo davanti al Parlamento ad Atene.
Che ci troviamo di fronte ad un autunno caldo ormai lo dicono anche i giornali borghesi, preoccupati dall'impennata dell'inflazione e dalla recessione in arrivo. Per il prossimo anno in Italia, se tutto va bene, è attesa una contrazione del Pil dello 0,2%.
A complicare una crisi economica dalle origini lontane ci hanno pensato la guerra in Ucraina e gli effetti delle sanzioni occidentali contro la Russia. L'abbiamo già detto ma forse è bene ripeterlo: la lotta per migliorare le condizioni di vita dei salariati va di pari passo con la lotta contro la guerra, l'una è inefficace senza l'altra. E non si tratta di farsi paladini di un impotente pacifismo, ma semmai di farsi megafono di un programma anticapitalista. Nel frattempo, le contraddizioni aumentano e i senza riserve cominciano ad entrare spontaneamente in agitazione.
Dopo l'allarme lanciato a giugno dalla compagnia di assicurazioni Allianz in merito all'aumento dei disordini civili dovuti al carovita e agli intoppi nelle catene di approvvigionamento, è arrivato ai primi di settembre il rapporto "Civil Unrest Index" dell'agenzia di consulenza britannica Verisk Maplecroft. E anche in questo caso viene scoperta l'acqua calda, ovvero che con la crescita dei prezzi di cibo ed energia aumentano gli scioperi e le rivolte. Per esempio in Indonesia, dove in questi giorni si stanno verificando violenti scontri tra manifestanti e polizia in seguito alla decisione del governo di alzare del 30% i prezzi del carburante; oppure ad Haiti, dove nelle ultime settimane l'alto costo della vita, la mancanza di carburante e l'insicurezza hanno fatto scendere in strada masse di senza-riserve.
Ci vorrebbero aggiornamenti giornalieri per riuscire a tenere il passo con quanto sta accadendo nel mondo in termini di lotte, scioperi e sommosse, ma per forza di cose qui ci limiteremo ad un focus riassuntivo. Una premessa è necessaria: riguardo a quest'incipiente ondata di subbuglio planetario, va considerato l'intreccio sempre più stretto tra gli scioperi a carattere rivendicativo e le rivolte contro lo stato di cose presente. Al di là di ciò che pensano e fanno politici e sindacalisti di ogni risma e colore, interessati per lo più ai tavoli delle trattive e alla legittimazione del proprio ruolo, quando le situazioni sono mature le lotte scoppiano spontaneamente, mandando a gambe all'aria i loro piani. Come nei terremoti "naturali" in cui l'urto tra le placche crostali sprigiona quantità enormi di energia, anche in quelli sociali lo scontro tra le classi provoca improvvise vibrazioni che fanno saltare i vecchi equilibri.
La temperatura sociale aumenta e con essa gli scioperi e le rivolte.
Come anticipato nell'articolo "Coprifuoco in Sri Lanka e Perù", la situazione sociale, già critica a causa del Covid che ha determinato intoppi nella catena di approvvigionamento, sta peggiorando drasticamente per effetto della guerra in Ucraina.
All'elenco dei paesi in stato di agitazione si aggiunge la Tunisia che, giovedì 16 giugno, ha visto uno sciopero generale dell'intero settore pubblico (che comprende anche porti e aeroporti), organizzato dal più grande sindacato del paese, l'UGTT (Unione Generale Tunisina del Lavoro), contro i bassi stipendi e il taglio di alcuni sussidi. La mobilitazione contro la perdita di potere d'acquisto dei salari ha coinvolto circa tre milioni di lavoratori.
Dall'Europa al Sudest asiatico i lavoratori del food delivery, anche a causa delle conseguenze della guerra e della pandemia, alzano la testa e riscoprono la necessità dell'unione internazionale degli sfruttati.
Venerdì 17 giugno circa 400 driver di efood si sono astenuti dal lavoro per 4 ore e hanno manifestato per le strade di Atene. Il corteo a due ruote si è concluso davanti alla sede centrale dell'azienda, una collegata di Delivery Hero. La direzione ha rifiutato di accettare le richieste dei lavoratori, che perciò hanno indetto un'altra giornata di lotta per il venerdì successivo, questa volta con uno sciopero di tutto il turno lavorativo. La protesta ha visto la partecipazione di centinaia di driver, che si sono radunati in sella alle loro moto fuori dagli uffici del Ministero del Lavoro, costringendolo ad ascoltare le loro richieste. Il Ministero ha dichiarato che alcuni comportamenti dell'azienda non sono corretti (mancato rimborso delle spese del carburante e mezzi di protezione individuale insufficienti), ma ha ignorato le altre richieste dei lavoratori, pertanto la lotta continua.
La gigantesca fabbrica della logistica e dello shopping online funziona grazie a una massa di facchini, rider e driver precari e super-sfruttati che hanno poco o niente da perdere, e infatti fanno scioperi, picchetti e cominciano ad organizzarsi internazionalmente.
Dopo un improvviso sciopero nella giornata del Primo Maggio dei "suoi" driver a Dubai, Deliveroo, la società di food delivery con sede a Londra, ha dovuto fare marcia indietro sull'introduzione di nuove misure che avrebbero comportato l'aumento delle ore di servizio e la riduzione della paga oraria. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata una comunicazione aziendale in cui si annunciava che il prezzo di una consegna sarebbe passato da 10,25 dirham, corrispondenti a 2,64 euro, a 8,75 (2,25 euro). Tra i motivi della protesta anche il mancato pagamento del TFR e dell'assicurazione sanitaria, e le tasse sui visti. La notizia della mobilitazione nella capitale degli Emirati Arabi Uniti ha avuto una certa risonanza in Rete perché la città, conosciuta come una delle più ricche e lussuose al mondo, non è abituata a scioperi improvvisi, essendo vietati i sindacati indipendenti e le astensioni dal lavoro. Il paese, la seconda economia del mondo arabo dopo la vicina Arabia Saudita, dipende dalla manodopera a basso costo di milioni di proletari immigrati, provenienti da India, Pakistan, Nepal, Sri Lanka e paesi africani, e che rappresentano il 90% della popolazione.
Lo scorso 26 novembre, nella giornata del Black Friday, migliaia di dipendenti di Amazon hanno scioperato in tutto il mondo, raccogliendo l'appello lanciato dalla piattaforma Make Amazon Pay. In Italia, alcuni sindacati di base hanno organizzato dei picchetti davanti al magazzino di Castel San Giovanni, nel piacentino, e dei blocchi nel deposito del Terminal 2 dell'aeroporto milanese della Malpensa.
Make Amazon Pay, la piattaforma web nata dall'unione di varie organizzazioni ed associazioni in solidarietà alle lotte dei lavoratori di Amazon, ha pubblicato un elenco delle richieste alla base della protesta: aumento dei salari, estensione del congedo retribuito per malattia, libertà di organizzazione sindacale nei siti di lavoro, e molto altro. Al di là delle posizioni politiche delle forze che fanno parte della coalizione, l'aspetto più importante emerso dalla campagna di lotta è l'aver posto la necessità di organizzarsi oltre i confini per battere un gigante dell'e-commerce come Amazon, perché è solo agendo a livello internazionale che i lavoratori possono ottenere risultati.
Mentre i lavoratori del magazzino Amazon di Bessemer, in Alabama, stanno cercando di formare un sindacato per migliorare le loro condizioni di lavoro, anche nel resto del mondo le iniziative operaie contro il gigante del commercio on line non mancano.
Termineranno oggi, lunedì 29 marzo, le votazioni sulla rappresentanza sindacale dei 5.800 lavoratori dell'hub logistico di Bessemer. Se l'impresa riuscirà e nascerà una nuova union, sarà la prima volta negli Stati Uniti in 26 anni di storia aziendale. La posta in gioco è alta e ha costretto tutti quanti a prendere posizione, dai politici ai giornalisti. Il Guardian afferma che, prima e durante il referendum sindacale, l'azienda ha spinto i lavoratori a votare contro la formazione del sindacato attraverso la diffusione di cartelli e messaggi nei luoghi di lavoro, e con l'organizzazione di incontri con i dipendenti.
In questa situazione di estrema precarietà, è sempre più chiaro che solo la lotta autorganizzata dei lavoratori a livello internazionale può fare la differenza, nel settore delle consegne a domicilio come altrove.
L'8 ottobre è stata una giornata di lotta internazionale contro i giganti del food delivery. La pandemia ha fatto crescere i profitti delle aziende durante i periodi di lockdown, mentre i rider sono stati costretti a lavorare per pochi spiccioli mettendo a rischio la loro salute (come nei magazzini di Amazon negli Stati Uniti dove 19.816 lavoratori hanno contratto il Covid-19).