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Se il crimine fosse quotato in borsa, le sue azioni sarebbero il miglior possibile investimento.

(Dal Corriere della Sera, 25 sett. 1972, terza pagina)

 

La geografia mondiale del riapparire proletario negli anni'60 ripercorre ed indica a caratteri di fuoco i punti nevralgici del dominio planetario del capitale: le 50 e più rivolte nere nelle megalopoli americane sembrano essere la premessa dialettica degli scioperi generali in Francia, (maggio '68), e delle rivolte studentesche in Giappone, Germania, America Latina. Come nascenti dall'unica logica conduttrice dell'impraticabilità delle attuali condizioni di vita, le tensioni distruttive si espandono a macchia d'olio negli stati cosiddetti "socialisti", e smascherano una volta per tutte (a Danzica e Stettino come nelle maggiori città cinesi) la mistificazione stalinista dell'edificazione del "socialismo" in un solo paese.

L'internazionale proletaria seppellisce ogni rappresentazione spettacolare (13) di se stessa: non sono più solo i fenomeni contingenti, le congiunture particolari ad essere sottoposte alla violenta critica pratica dei proletari, ma l'insieme delle condizioni di vita reificate, la totalità dell'esistente autoerettasi a potenza sociale complessiva. I momenti più radicali dell'espressione rivoluzionaria, determinati evidentemente dalla nuova situazione di estremo sviluppo delle forze produttive e del proletariato moderno, incidono significativamente sugli altri punti di lotta.

Questi ultimi, se ancora presentano al loro interno spazi di recupero o direttamente riformistici (coogestione, nazionalismo, confusione interclassista), assumono però una nuova dimensione nella misura in cui la loro prospettiva è la negazione delle prospettive della realtà capitalista che le genera.

Se le rivolte dei neri americani sono le rivolte contro l'abbondanza e contro la merce, prese in parola, il movimento europeo, anche se parte dalla critica della miseria, assume senso radicale nella misura in cui critica implicitamente lo essenziale del processo che creerà l'abbondanza dello spettacolo.

La critica della vita quotidiana, nata dal moderno sviluppo dei rapporti di produzione, si presenta come il filo logico che lega e sintonizza, pur contraddittoriamente, esplosioni di violenza e di ribellione sempre più continue. Dalla rivolta isolata all'insurrezione generalizzata, non c'è che la coscienza della propria continuità. E questa va creandosi. Per l'Italia, le lotte iniziate nel '67-'68 rappresentano il riapparire del proletariato con interessi propri separati e contraddittori con quelli dell'Economia.

Esse precedettero, in ciò che vi era di significativo, il rinnovo nazionale dei contratti del '69 ( metelmeccanici, edili, chimici, ecc. ), ma riuscirono a trovare la loro dimensione non settoriale (integrale) solo nel cosidetto "autunno caldo". L'"autunno caldo" rappresenta anche il primo momento di separazione fra la rivoluzione e le forze del recupero, separazione che andrà accentuandosi nel periodo post-autunnale: allo sviluppo della critica della produzione e del lavoro va sempre più opponendosi la gestione forzata e forzosa degli elementi recuperabili all'interno della fabbrica e del tessuto sociale.

Accenniamo ora alle modificazioni operatesi nelle organizzazioni sindacali, sia per il significato intrinsecamente riformista nel senso nuovo che esse vanno definendo, sia per l'azione direttamente antiproletaria che esse esplicano in ogni frangente, fermo restando che ogni impulso di modificazione dell'esistente viene mutuato, come prodotto spurio e devitalizzato, dal movimento reale del proletariato, non procedendo il capitale che per inerzia.

 

Nel '69 le esplosioni di lotta violenta e continua vengono a coincidere con il rinnovo contrattuale, che coinvolge milioni di lavoratori (errore macroscopico dei piani capitalistici, che facendosi forti dei livelli di contrattazione fino ad allora imposti, avevano preferito coagulare i contratti di moltissime categorie per facilitare quella che era sempre stata fino ad allora una ratifica formale, un assenso senza dibattito ai progetti di sviluppo e di programmazione capitalistici).

Ma se nel '66 i contratti bidone avevano rappresentato una ennesima dimostrazione dell'inefficacia proletaria, si andava d'altra parte ricostituendo, negli anni immediatamente seguenti, un moderno proletariato non più disposto ad accettare lo scambio della propria vita per la rinascita economica.

Rinascita che, se da una parte aveva rappresentato il simbolo, l'illusione per la quale il proletariato si era potuto esprimere fino ad allora nell'unica accezione di forza-lavoro (complici coscienti le forze sedicenti comuniste), d'altra parte aveva mostrato i suoi limiti con la crisi (limite storico dell'organizzazione capitalista è proprio la ciclicità, i cui tempi vanno via via abbreviandosi fino a raggiungere un andamento standard di crisi permanente) che aveva disilluso e demistificato quei valori il cui prezzo era il sacrificio.

Se l'evoluzione capitalistica degli Stati Uniti si è svolta in tempi sufficientemente lunghi da poter instaurare a livello di massa l'ideologia portante della struttura economica, se cioè, una trasformazione della produzione in senso moderno era preceduta ed accompagnata dall'introiezione nel proletariato della tecnologia e dei suoi effetti, della scienza e dei suoi prodotti, accettati ormai come manifestazione vitale del'"Uomo Moderno", e, per dirla in altri termini, i soddisfacimenti proposti riuscivano a compensare la rinuncia ad ogni forma di umanità, in Italia le contraddizioni esplosero là dove il prezzo di un'avanzata e veloce industrializzazione era il supersfruttamento (in termini quantitativi, vedi straordinari, cottimi, incentivi) e il basso costo della forza-lavoro. E proprio questo basso livello dei salari non consente che si diffonda a livello di massa la compensazione ideologico-mercantile (la casa, il veicolo, il lusso, ecc. ), non permette cioè che modelli di vita, falsi soddisfacimenti, atti e funzionali unicamente alla produzione, all'accumulazione e alla conservazione di questa economia, siano immediatamente introiettati. L'introiezione di tutto ciò, infatti, non è un fatto meccanico, scientificamente attualizzabile in un dato lasso di tempo, proprio perché si pone in continuo contrasto con le esigenze umane di ciascun individuo. I sindacati avevano rappresentato, dal dopo-guerra agli anni '60, un'organizzazione amorfa, unicamente rappresentativa della forza-lavoro.

Ma dagli anni '60 le necessità di sviluppo capitalista propongono una ristrutturazione della produzione, e di conseguenza una riorganizzazione della vita, dei rapporti individuo-produzione che si estendono a livello sociale ai rapporti proletariato-capitale, in cui anche il sindacato viene a ricoprire ruoli più evoluti: non si può più individuare nei sindacati semplicemente un'organizzazione nel l'organizzazione, ma essi vengono ad essere un momento più specializzato dell'organizzazione "tout court", e cominciano a porsi come momento complessivo, come elemento determinante e dirigente dello sviluppo stesso dei rapporti di produzione e della produzione stessa.

Proprio perché la funzione dei sindacati comincia ad essere quella di mediazione dei rapporti capitale-proletariato, dove per mediazione si intende recupero delle espressioni rivoluzionarie in una prospettiva essenzialmente riformista, ciò che caratterizza il nuovo tipo di sindacato non può più essere la passività, ma il massimo di attivismo, la presenza costante: rovesciamenti capitalistici dell'attività e dell'efficacia proletaria.

Ma ancora una volta un mutamento delle capacità organizzative del capitale incontra i suoi limiti nel mutamento delle capacità del proletariato rivoluzionario: i tempi continuano ad essere accelerati, e se solo pochi anni prima gli unici avvenimenti erano le lotte C.G.I.L.-C.I.S.L.-U.I.L.,le nuove tensioni a livello proletario impongono una nuova problematica, un'organizzazione monolito, un esempio di compattezza da ricercare appunto nell'unione delle confederazioni.

Il sindacato diviene l'organo addetto all'incanalamento di forme di lotta che in una moderna organizzazione non possono essere lasciate nel l'ambito dell'imprevedibile, ma che devono essere preventivate, programmate in piani funzionali come parte integrante di una logica di sviluppo controllato e pianificato. E nello stesso tempo deve rappresentare il modello spettacolare della lotta di classe, e funzionare da valvola di sfogo delle crescenti tensioni proletarie. Ma il compromesso diviene terribile banalità quando si pretende di organizzare sotto l'egida della produzione le tensioni antiproduttive ed anti lavorative, che rappresentano i momenti di maggiore verità pratica proprio nei tentativi di distruzione di quella realtà che vorrebbe tutto inglobare e recuperare.

Ruolo dunque davvero moderno questo che i sindacati italiani cominciano ad assumere con la rinascita del movimento proletario: da momento di semplice ingabbiamento delle esigenze rivoluzionarie, si perviene ad un ruolo fondamentale nel processo di organizzazione programmatica del lavoro e dell'estrazione del plus-valore relativo. Questa la linea di tendenza. In pratica questa evoluzione, che presuppone la riunificazione di fatto dei sindacati, inizia, negli anni '68-'69 con una serie di retaggi e di impedimenti mutuati dal passato.

Queste contraddizioni si espressero in una non omogeneità di azione da parte delle singole Confederazioni nel periodo pre-autunnale, non omogeneità che arrivava a manifestarsi in una serie di dispute e beghe per quanto riguardava gli scioperi o l'atteggiamento da assumere rispetto ai nuovi fenomeni spontanei che si producevano continuamente. E così questa stessa situazione contribuì non poco al mantenimento di quel clima di sfiducia e di disinteresse nei confronti dei sindacati per cui la ritrovata unità all'inizio dell'autunno e nel momento dì maggiore conflittualità non potè ridare immediatamente ai sindacati la sperata credibilità: il movimento degli scioperi selvaggi al di fuori di ogni inquadramento potè svilupparsi trovando solo un'opposizione relativa da parte confederale.

E' da notare in questo periodo anche lo svilupparsi soprattutto quantitativo dei gruppi extra-parlamentari, che proprio sfruttando le reali ma contraddittorie esigenze operaie, ed il momento di crisi padronale e sindacale, poterono inserirsi nelle lotte contrattuali per recuperare le punte più avanzate emerse direttamente dagli scontri aperti fra le parti in causa. Deve però essere chiaro il carattere essenzialmente contro-rivoluzionario del nascere e dell'attecchire di questi gruppuscoli: resta fermo che non è neppure lontanamente paragonabile tale prosperare con quello, per esempio, dei gruppi intellettuali ed operai che nacquero prima e dopo la rivoluzione del 1848, che rappresentarono, come già Marx mise in evidenza pur con toni critici, un momento di dialettica positiva e di avanzamento teorico fondamentale. I gruppuscoli di oggi, al contrario, nascono e si sviluppano sotto il segno del recupero ideologico e politico: sono gli avvoltoi pronti a sbranare ciò che non ha ancora la forza di vivere autonomamente, e dunque muore per inesperienza. Il proletariato non ha che da gettarli nella pattumiera della storia.

Ma si mentirebbe nell'essenziale se si restringessero le considerazioni teoriche su quella fase della lotta solo allo ambito operaio e a quello dei suoi "rappresentanti ufficiali". La comprensione effettiva di quel momento e dei suoi legami col presente passa al contrario attraverso la comprensione veritiera delle direttrici sulle quali è proceduto e si è sviluppato il movimento reale nelle sue caratteristiche peculiari.

 

La lotta di classe in Italia sembra infatti essere proceduta su due prospettive apparentemente slegate, l'una di tipo direttamente qualitativo, identificabile con la radicalizzazione che si è prodotta spontaneamente, l'altra formalmente quantitativa, riconducibile cioè alla quantità dei settori in lotta, ed allo spirito unitario sempre più forte.

Precisiamo subito una cosa: la tendenza alla proletarizzazione mondiale non significa altro che la perdita di potere sulla propria vita, sentita ugualmente da tutti, e la coscienza della propria esistenza come puro epifenomeno dell'esistenza incoglibile, inafferrabile, quasi incelata, del processo del capitale e delle esigenze dell'Economia. Ogni "calamità" sociale od ogni processo di mortificazione ed annichilimento della vita umana viene sempre più inteso, o giustificato, come un rimedio necessario, se non come una contraddizione di crescita della società capitalistica stessa. Tutto il tempo di vita diviene un tempo di valorizzazione del valore, diviene un momento di lavoro necessario per la produzione e la circolazione di merce-capitale: a questo punto, tutto il tempo diviene tempo di lavoro supplementare, plus-lavoro estorto e non retribuito.

Il capitale non potrà mai pagare con denaro la vita sottratta a tutti.

I problemi di liquidità e di circolazione monetaria racchiudono al proprio interno anche questo: chi ancora si limita a parlare in termini "economici" di questi fatti,coglie l'inessenziale per celare l'essenziale.

La dequalificazione di moltissimi ruoli in precedenza socialmente rispettabili, lo svilimento di ogni attività umana direttamente legata al ciclo produttivo, quando il ciclo produttivo è diventato tutto, e pervade tutto, l'assorbimento di ogni tendenza spontanea all'interno di un'ottica del sempre uguale, infine la perdita totale di autonomia rispetto alle condizioni attuali di sopravvivenza, impongono un riconoscimento reciproco di condizione che non viene certo impedito, a lungo andare, dai meccanismi di concorrenza e di attrazione seduttiva del potere.

In queste condizioni, solo il ruolo sociale specifico determina il momento della presa di coscienza, la circostanza particolare nella quale si verifica la conquista del punto di vista della totalità: in altre parole ormai esiste per la stragrande maggioranza della popolazione la possibilità e la condizione oggettiva per un porsi soggettivo delle persone nella storia.

Ma se questo spiega una volta per tutte la comparsa nella lotta di classe di quei ceti che tradizionalmente ne erano estranei in prima persona, il rapporto esistente di fatto fra il ceto direttamente produttore di plus-valore materiale e classico, e i ceti creati apposta per la sua semplice circolazione e realizzazione improduttiva, costituisce il fattore determinante per comprendere la dialettica della situazione creatasi in questi ultimi anni.

Il ceto operaio sembra ancora infatti fungere da catalizzatore, da coagulatore di una situazione complessiva che, per il fatto stesso di esistere come complessiva e totalizzante, si pone da se stessa elementi nuovi di radicalizzazione e di sviluppo nella lotta generalizzata. I livelli qualitativi più significanti del processo empirico di critica alle condizioni attuali di sopravvivenza tornano a loro volta ad influenzare, radicalizzandoli, gli elementi detonatori del momento primitivo ed originario della lotta di classe. L'impeto unitario ed egualitario che pervade il ciclo delle lotte che vanno dal '67-'68 ad oggi deve essere compreso come risultante, come momento qualificante del processo di sviluppo delle contraddizioni intrinseche che si pone come sempre più unitario: all'unita raggiunta nel mondo rovesciato della società del capitale, va sempre più contrapponendosi la riscoperta della comune essenza umana e delle comuni esigenze di vita. E questa riscoperta è appunto la risultante di situazioni analoghe, ed insieme lo strumento ed il modo di esistere di una nuova spontaneità conquistata direttamente nella strada.

Ma ben poco hanno compreso di ciò tutti i politici e tutte le bande impegnate nella ricerca di uno spazio di esistenza: sulle loro bocche l'unità è diventata la panacea che risolve tutti i mali, si è trasformata nello slogan indifferenziato ed indifferente a qualsiasi contenuto. L'essenza stessa di questa tendenza, che esprime la proletarizzazione di tutti e la coscienza di questo processo, ha potuto così trasformarsi nella parola d'ordine, presto diventata parola per l'ordine, del l'unità delle masse popolari.

Il carattere tendenzialmente offensivo e distruttivo dell'unità e dell'uguaglianza, così come andava direttamente e spontaneamente articolandosi nella lotta viva e diretta, si risolveva nella difesa delle più elementari "libertà" borghesi, e la dialettica reale poteva apparentemente trasformarsi in un giochetto per apprendisti stregoni. Ma ciò che più conta, per comprendere la reale portata degli avvenimenti di questi ultimi anni, è inquadrare immediatamente il movimento complessivo di critica che si generalizza intanto che si radicalizza.

Le punte avanzate della lotta tornano dialetticamente ad influenzare ed a significare il movimento complessivo, riportano di fatto, per la sola ragione di esistere, e di esistere radicalmente, la loro, propria esperienza come esperienza già teorica, capace di influenzare e di penetrare "nelle masse" non appena si creino condizioni oggettive praticabili.

La critica all'espropriazione del plus-valore estratto dalla forza-lavoro diviene, mediato dalle esperienze di critica radicale dell'ideologia e dei suoi strumenti di trasmissione, la critica qualitativa al lavoro "tout court", all'attività produttiva separata dalle reali esigenze umane. L'assenteismo non è il risultato di una estensione quantitativa della critica allo sfruttamento, bensì è la coerente radicalizzazione ed articolazione dialettica della critica dell'Economia, da una parte, e della vita quotidiana, dall'altra. La ricomparsa della violenza, non più come portato individuale o come ribellione ancora primitiva, significa nient'altro che la selvaggia, eppur moderna, contestazione dell'attuale ordine sociale.

L'intollerabilità delle presenti condizioni di vita funge da elemento catalizzatore: il punto di vista della moderna lotta proletaria comincia a cambiare radicalmente, e l'operaio, lo studente, il criminale, cominciano ad esercitare la loro violenza non più in quanto operaio, studente, criminale, ma in quanto partecipi di un unico progetto di distruzione radicale dell'esistente, in quanto membri attivi della nascente classe universale.

E' chiaro d'altra parte, e qui lo sottolineamo per non lasciare ombra di dubbio, che questa caratteristica si sviluppa su quella che è la base reale delle condizioni di vita e di funzione all'interno della società, e non indipendentemente da essa.

Ma quello che è importante, è cogliere lo spirito e la pratica comunitaria a livello di massa che rinasce in questi ultimi anni, non come la meccanica somma elementare di situazioni differenziate, ma piuttosto come l'esigenza comune comunemente sentita ed espressa, che risolve condizioni di vita solo fenomenicamente differenti.

L'autunno caldo, e più ancora le lotte precedenti alla Pirelli, alla Fiat, all'Alfa Romeo, ed il boicottaggio continuo del la produzione, le insurrezioni di Battipaglia e le rivolte carcerarie, sono l'espressione più trasparente che qualcosa è cambiato, che qualcosa cerca empiricamente la sua propria realizzazione.

Anche qui gli errori servono solo a commisurare la grandezza della prospettiva, il senso di una tensione nuova che non accetta di scendere a compromessi con l'ordine esistente; i sindacati ed i recuperatori di ogni sorta hanno dovuto, come sempre, fare leva sulle debolezze e sui ritardi del movimento complessivo per poterlo ingabbiare all'interno di un'ottica riformista e contrattuale.

In effetti, le debolezze del movimento reale che va costituendosi in Italia negli anni '68-'69 possono essere ricollegati alle storiche carenze del movimento proletario in Europa: l'isolamento dei singoli movimenti di lotta più avanzata determinato dalla diversificazione delle situazioni specifiche paralizza la crescita complessiva.

La dialettica, là dove non riesce o non può darsi gli strumenti per una comunicazione viva ed efficace delle esperienze direttamente vissute, si risolve alla fine nel riflusso e nell'inglorioso ritorno all'interno di schemi e di parametri che il movimento empirico e spontaneo aveva superato d'impeto.

La comunicazione delle esperienze del proletariato non può avvenire che su un terreno che presenti gli agganci e le occasioni propizie a tale comunicazione e trasmissione. In questo senso, dunque, la situazione italiana può essere differenziata da quella americana, oggettivamente più omogenea ed aggressiva.

E' chiaro per di più che, laddove il movimento del proletariato trova impedimenti e difficoltà di ogni genere nella trasmissione delle sue linee di tendenza essenziali, si infiltrano tutti i tipi di recuperatori e di banalizzatori: non solo, ma è molto più semplice contrabbandare ottusamente esperienze di lotte arretrate o comunque facenti capo ad ogni tipo di ideologia sottomaoista e stalinista, ideologie che ora si pongono come dominanti, che non la ricerca faticosa ed incerta per ristabilire la teoria proletaria nei suoi caratteri moderni.

Ma non solo a questo livello si presentano i ritardi del movimento proletario in Italia: la cosa più importante, in un certo senso, è cogliere la limitatezza necessaria e determinata che esso ebbe. Se sicuramente anche in Italia si fanno sempre più pressanti le contraddizioni intrinseche del processo del capitale, è altrettanto vero che tale processo non è ancora arrivato al paradosso, all'autodistruzione, alla disgregazione di ogni nesso sociale ed umano. Per difendersi, il capitale americano è costretto ad attaccare violentemente su tutti i fronti, mentre in Italia esistono ancora spazi per il riformismo (o meglio per la demagogia democratica), anche se la linea di tendenza è chiara e distinta, il potere non è stato ancora costretto a riconoscere apertamente che democrazia borghese e fascismo reale si identificano. Dunque esistono ancora spazi di illusione e di mistificazione.

Ben diversa è la situazione negli Stati Uniti, dove lo stato di emergenza proclamato da tutti i poteri costituiti è la risposta, l'unica risposta ancora possibile, al dilagare della violenza proletaria e liberatrice.

Lo stesso ceto operaio, che in Italia svolge quel duplice ruolo di detonatore e di recuperatore-conservatore di tutta una ignobile serie di putride ideologie, negli Stati Uniti è sempre più costretto ad uscire dall'ambiguità, a schierarsi apertamente con la rivoluzione o, anche se solo periodicamente, con la contro-rivoluzione.

Un'ultima notazione importante, proprio per quel che riguarda questa particolare ottica del discorso, risiede in ciò, e sarà sviluppata nell'ultima parte del libretto: lo sviluppo del movimento rivoluzionario italiano all'inizio di questi anni "70 sta provocando come effetto contrario un'allineamernto sempre più rapido con situazioni più sviluppate; in quessto senso, il rinnovo dei contratti del '72 o ad esempio l'attuale governo Andreotti e le decisioni economico-sociale-poliziesche prese ultimamente, sono un'ulteriore dimostrazione di come, una volta iniziato il processo di rivoluzionamento delle attuali condizioni di sopravvivenza, si scateni immediatamente e con la massima violenza la contro-rivolizione globale.

"Ma, forse, la rivoluzione sarà possibile solo una volta compiuta la contro-rivoluzione". (Marx).

Da Comontismo - Edizioni - Milano