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"Apparirà chiaro allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente. Apparirà chiaro come non si tratti di tirare una linea retta tra passato e futuro, bensì di realizzare i pensieri del passato. Si mostrerà allora come l'umanità non incominci un lavoro nuovo, ma porti a compimento consapevolmente il suo vecchio lavoro".

(Marx a Ruge, sett. 1843)

La necessità di ristabilire la verità circa la legge di sviluppo del capitale in generale e, nel nostro caso, di quello italiano, impone di verificare le leggi interne al sistema nella logica del solo processo che interessa il capitale medesimo: il processo di autonomizzazione del valore. (1)

A questa necessità corrisponde l'esigenza di cogliere il capitale nella sua evoluzione storica, di ristabilire cioè i concetti di dominio formale e di dominio reale (2) come unici capaci di spiegare la logica di sviluppo in ciò che presenta di essenziale.

Il capitale, come modo sociale di produzione, realizza il proprio dominio reale quando perviene a rimpiazzare tutti i presupposti sociali e naturali che gli preesistono, con forme di organizzazione specificamente sue, che mediano la sottomissione di tutta la vita fisica e sociale alle necessità di valorizzazione. (3)

La teoria proletaria deve essere sempre in grado di analizzare i fenomeni che appaiono nel tessuto sociale sulla base di ciò che è materialisticamente possibile e necessario che appaia, dunque sulla base di una perfetta coscienza del periodo storico che si vive. In questo senso, ogni altra interpretazione della recente storia delle società capitalistiche che fondasse la propria analisi su concetti come "capitalismo di stato", "imperialismo", "capitalismo concorrenziale", ecc. , rientrerebbe immediatamente all'interno dell'ideologia socialdemocratica, o del suo opposto illusorio, la visione leninista e bolscevica della realtà. (4) - (5)

L'analisi dei rapporti economico-sociali che si vengono a creare con la fine della seconda guerra mondiale, presupposto fondamentale per una piena comprensione della realtà contemporanea, si articola nella verifica dei rapporti di forza e della interattività dell'evoluzione dei differenti capitali nazionali.

Consideriamo in particolare i rapporti esistenti tra gli Stati Uniti e l'Europa, ed i caratteri maggiormente differenzianti le diverse componenti sociali: il rapporto fra lo sviluppo tecnologico e l'impiego conseguente di mezzi di produzione estremamente avanzati richiede in America un impiego relativamente minore di forza-lavoro, il che equivale a determinare la concorrenzialità assoluta dei prodotti americani sul mercato mondiale, sia a livello quantitativo, sia a livello qualitativo. D'altra parte in Europa occidentale, e specialmente in Italia, il rapporto fra capitale costante (6) impiegato per la costruzione di una base industriale meccanizzata e capitale variabile (6) utilizzato in salari per la mano d'opera era estremamente basso, e c'era cioè bisogno di una notevole quantità di forza-lavoro per strumenti produttivi relativamente arretrati ed inadempienti. Di conseguenza si sviluppava una differenziazione nella qualificazione della forza-lavoro stessa che, se negli Stati Uniti raggiungeva livelli tecnologicamente elevati, in Europa doveva essere incrementata il più possibile per far fronte alle esigenze di larghi profitti e di accumulazione primitiva di capitale industriale. Si nota dunque come sulla base di queste condizioni oggettive il plus-valore estratto dalla forza-lavoro cominciasse in America a porre il terreno per una fase di avanzato dominio reale del capitale, mentre in Europa si era rimasti ad una estrazione forzata ed assoluta di plus-valore. (7) In questo senso, se anche il dominio del capitale era in Europa apparentemente più duro e violento che non in America, non per questo il capitale europeo era riuscito a crearsi una propria base autonoma e strutturata. In altri termini ciò può essere riaffermato dicendo che il capitalismo americano era giunto ad un grado più avanzato di evoluzione, cominciando già a presentare tutte quelle caratteristiche di stato moderno tipiche della realtà contemporanea. A questo livello di differente composizione organica dei capitali (8) corrisponde una differenziazione delle merci prodotte, che dà luogo ad una divisione internazionale del lavoro (9) e dei mercati da dominare. I piani di "aiuti economici" all'Europa sono il sanzionamento ufficiale di questa nuova situazione economica: all'esigenza statunitense di esportare generi alimentari e prodotti tecnologicamente avanzati, corrisponde l'esigenza Europea ed italiana in particolare di acquistare tali prodotti per crearsi una propria base industriale autonoma ed in grado di partecipare concorrenzialmente alla spartizione delle zone di influenza e dei mercati.

D'altra parte, con la seconda metà degli anni '50 possiamo assistere al ripresentarsi, con forme che sono però tipiche del nostro tempo, di tutte le contraddizioni così ben camuffate nel periodo d'oro dello sviluppo del capitale. Si viene infatti a creare sempre più una situazione di crisi permanente con caratteristiche nuove rispetto alle crisi storiche cui l'economia è ciclicamente andata soggetta. Crisi permanente non significa affatto che il capitale perda la sua ciclicità, significa semplicemente che, imboccata la china discendente, non riesce più a frenare la diminuzione (relativa) del processo di accumulazione, e la caduta tendenziale del saggio del profitto. In questo contesto la stagflazione (stagnazione ed inflazione contemporaneamente) diviene tipica della situazione economica internazionale: per cui, mentre la produzione rimane stagnate, i prezzi salgono alle stelle nel tentativo di realizzare sovraprofitti. Essendo necessità interna di ogni paese capitalistico quella di esportare il più possibile la propria crisi, il processo e i rapporti internazionali che prendono l'avvio negli anni '60, sono improntati a questa esigenza di fondo: gli Stati Uniti, fino ad allora padroni assoluti dell'economia mondiale, trovandosi a far fronte alla propria crisi interna, (10) cercano costantemente di esportarla a danno degli altri paesi capitalistici avanzati, in particolare Canada, Giappone e Europa occidentale. Ma una condizione è essenzialmente cambiata nel quadro degli equilibri internazionali sopra descritti: queste regioni economiche si presentano ora con interessi propri, e quel che più conta, dispongono di un patrimonio industriale altamente produttivo. In special modo la Germania e il Giappone, che negli ultimi anni della ricostruzione postbellica avevano incrementato l'industria meccanica e tecnologica fino a portarla a livelli concorrenziali, tendono ora da assumere un ruolo di primaria importanza per tutto ciò che concerne le decisioni monetarie e commerciali. Ogni tentativo da parte americana di far pagare ad altri il peso della propria crisi interna deve fare i conti con interessi stranieri ed internazionali sempre più potenti: per di più lo stesso capitale americano si è andato sempre più impegnando in Europa, con una politica di investimenti finanziari ed industriali che vede come direttamente ostile una politica protezionistica americana. Inoltre il mercato interno è ormai saturo, è nel settore agricolo questo è ancora più evidente. Ciò assume tanta più importanza in relazione al fatto che l'economia americana è esportatrice soprattutto di capitali e di mezzi di produzione, mentre ha, a livello di merci, una configurazione economica essenzialmente chiusa, in cui cioè il mercato interno rappresenta la parte di gran lunga più importante ed in cui lo sviluppo industriale non si basa affatto sulle piccole e medie industrie, bensì su colossi monopolistici dediti soprattutto all'economia nazionale. Un conseguente squilibrio si presenta a livello monetario caratterizzandosi con un continuo deficit della bilancia dei pagamenti americana (11). Il dollaro è divenuto una moneta sospetta (12) e la sua crisi (invano rallentata col tentativo fallito in parte di rivalutare le monete europee e lo yen) è la misura della crisi della saldezza economica americana e della ricerca affannosa di nuovi equilibri.

 

Passiamo ora a considerare il ruolo della economia italiana in funzione della situazione mondiale or ora esaminata, sintetizzando:

  1. Con la caduta del fascismo, l'Italia si presenta come un interessante e redditizio mercato da conquistare (generi alimentari, prodotti dell'industria pesante, meccanica, chimica, e comunque prodotti richiedenti un alto livello di specializzazione).
  2. Contemporaneamente il capitale italiano opera la riconversione della propria industria bellica in industrie meccaniche, tessili, e in generale si dedica alla produzione di beni di consumo e di strumenti di produzione primari ed aventi caratteristiche ancora meccaniche e non automatizzate.
  3. L'inserimento dell'Italia in un forte mercato in rapida espansione favorisce l'esportazione ed il rafforzamento in generale dell'attività industriale.
  4. Alla base di ciò si sviluppa una stretta divisione internazionale del lavoro e della produzione, con una rigida sottomissione del capitale italiano alle esigenze di riproduzione allargata dei capitali americani.
  5. L'inserimento in un mercato di merci in forte espansione comporta anche la sottomissione della forza-lavoro alla logica di sviluppo e di movimento dell'economia. Ciò provoca uno spostamento enorme di masse (emigrazione dal Sud ed urbanesimo) che risponde all'esigenza di diminuire i costi unitari di produzione tenendo basso il prezzo della mano d'opera.

L'accumulazione capitalistica di questo periodo si presenta dunque come caratterizzata da una fase di rilancio dell'iniziativa privata e da un balzo conseguente degli investimenti imprenditoriali, anche in imprese di non eccessive dimensioni.

 

In questi anni, d'altra parte, il fronte operaio si trovava interamente sottomesso allo stalinismo imperante: distrutto dall'enorme ristrutturazione del capitale seguita agli anni '20, risorto spettacolarmente come cadavere mostrato in pubblico negli anni bui della resistenza e dei fronti uniti, si offriva imbelle ad ogni manovra del potere, si riduceva a pura funzione del capitale, come elemento variabile della produzione. Era il periodo in cui la richiesta di mano d'opera si evolveva con l'ampliarsi degli investimenti industriali, e poteva essere sapientemente calmierata a causa della grande offerta e della sete di lavoro per la sopravvivenza, eredità queste del periodo bellico. Esisteva per il capitale la possibilità di operare indisturbato a livello di grandi spostamenti di masse e di settorializzazione della produzione: si agiva dunque nel senso di uno sfruttamento intensivo ma soprattutto estensivo della forza-lavoro. La violenza di questo sfruttamento ancora primitivo si manifestava con un largo uso degli straordinari e in special modo dei cottimi. Costretto a scegliere tra la morte per fame e la vendita totale di se stesso, il movimento rivoluzionario non poteva ancora avere i termini per presentarsi con le sue caratteristiche moderne: l'era eroica del capitale coincideva quindi con l'ignominia del proletariato, annichilito ed inesistente, la cui distruzione si poneva d'altra parte come "conditio sine qua non" per lo sviluppo ed il trionfo della Economia e delle sue leggi.

Va notato per di più che in questo periodo si assiste allo spaccamento ed allo sfaldamento del movimento sindacale, fino ad allora gestito unicamente dallo stalinismo, ed alla spettacolare e miserabile comparsa nel "balletto del potere" della C. I. S. L. e della U. I. L. , che traevano spazio sia dalla particolare congiuntura internazionale (guerra fredda) sia dalla impotenza permissiva del proletariato. Ma quelle che erano le contraddizioni che questo tipo di organizzazione portava in sé, sarebbero esplose in modo più inaspettato e dirompente nel periodo successivo. Col finire degli anni '50 ricominciano a verificarsi massicce lotte operaie che, se da un lato rappresentano uno strascico di uno stadio ormai obsoleto della lotta di classe (limitato cioè ad una visione ancora operaista della rivoluzione), d'altra parte segnano la nascita di un nuovo momento finalmente totalizzante della critica dell'esistente, nella misura in cui si pongono in termini oltremodo violenti nei confronti dell'organizzazione capitalistica del lavoro (scioperi di Genova, Palermo, Reggio Emilia, ecc.).

Al primo apparire della rivoluzione fa per altro riscontro il termine del primo periodo di facile accumulazione favorito dai sindacati, e l'inizio della crisi di riproduzione del capitale: è urgente perciò dare inizio a delle rapide ristrutturazioni, sganciandosi in pari tempo dall'ingerenza e dal dominio americano sull'economia nazionale.

L'internazionalismo capitalista, la divisione dei compiti produttivi così come era stata strutturata, comincia a funzionare da ritardante ed addirittura da impediente un piano di ristrutturazione globale che mantenga alti i margini di profitto e dunque di reinvestimento delle singole economie nazionali. Gli elementi sui quali aveva potuto fare affidamento l'Italia negli anni immediatamente seguenti la seconda guerra mondiale, stanno ora perdendo i loro effetti di spinta: l'inserimento in un mercato internazionale in forte espansione richiede al capitale italiano di stare al passo con tempi e scadenze che non gli sono totalmente propri, e si presentano dunque quelle prime contraddizioni tra interessi nazionali italiani e interessi internazionali che non possono che vedere il capitalismo italiano in posizione perdente rispetto all'enorme base produttiva automatizzata e modernissima degli altri stati capitalistici, in special modo Stati Uniti, Germania, Giappone.

Se l'Italia, con l'introduzione di nuovi sistemi produttivi, aveva contribuito allo sviluppo della divisione internazionale del lavoro e alla massimizzazione dei profitti, per mantenere un livello di concorrenzialità aveva ora bisogno di stare al passo con le esigenze di automazione espresse dai maggiori paesi capitalistici, di operare cioè una ricomposizione organica corrispondente all'esigenza di impegnarsi in nuovi necessari investimenti. Si consideri inoltre l'incapacità del capitale italiano di far fronte in modo organico ai suoi storici problemi di sperequazione fra regioni: il mezzogiorno comincia ad avere una propria base produttiva moderna e capitalisticamente avanzata, ma a livelli quantitativi ed estensivi così miserabili da non essere determinanti nella prospettiva internazionalista del capitale italiano. Ma queste analisi resterebbero sterilmente su un terreno economicistico, se non si fondassero su un'analisi della trasformazione delle forze produttive e dei conseguenti rapporti di produzione.

Nella dinamica delle componenti il tessuto sociale si sono andati caratterizzando due movimenti apparentemente contradditori:

  1. l'esigenza del capitale, che storicamente ha creato e utilizzato per se la forza lavoro, e con ciò sottomesso tutta la vita degli individui alle proprie leggi intrinseche, si risolve ora nell'esatto contrario, nell'estromissione dal ciclo produttivo di lavoro divenuto superfluo e determinante costi di produzione insopportabili per i piani di sviluppo del capitale. Per stare al passo con le proprie esigenze produttive e di mercato (bassi costi di produzione, concorrenzialità quantitativa e qualitativa delle merci, ecc. ), il capitale opera ristrutturazioni tecnologiche al fine di aumentare la propria composizione organica (estromissione della forza-lavoro e sua sostituzione con capitale fisso, impiegato in macchinari e tecnologia). Questo processo viene compiuto al fine di favorire la circolazione e la realizzazione (vendita=dalla forma merce alla forma denaro) del valore. Ma questo valore deve essere acquisito e consumato da popolazione avente l'esclusivo fine di consumare in modo improduttivo. Da ciò deriva la creazione di una base di nuovi ceti medi (nuovo significato del ceto impiegatizio, senso dei settori terziari e dei servizi, strati sociali dediti alla creazione delle condizioni per la vendita, come settori pubblicitari e propagandistici) e le sempre maggiori separazioni e specializzazioni all'interno della popolazione attiva.
  2. a questo movimento di stratificazione, corrisponde una impersonalizzazione e uno svuotamento totale della vita. Il dominio reale del capitale determina il concetto di massa, di insieme indifferenziato al di fuori delle storiche delimitazioni di classe.

Come nel passaggio dalla produzione di plus-valore assoluto a quella di plus-valore relativo, il capitale (il cui movimento tende da sempre all'espropriazione assoluta) ha scisso tutti i nessi sociali e tecnici del processo lavorativo che gli preesisteva, riunificandoli come potenze intellettuali del proprio processo di valorizzazione, così oggi, nel passaggio del capitale a potenza sociale complessiva, assistiamo alla disintegrazione di tutti i tessuti sociali e di tutte le connessioni mentali passate, ed alla loro ricomposizione nell'unità delirante, organizzata dalle sempre più veloci metamorfosi del capitale, ridotti ad ingredienti degradati della mirabile sintesi del valore che si autonomizza. Tutto il tempo di vita delle masse è tempo socialmente necessario alla creazione ed alla circolazione-realizzazione di plus-valore; tutto è misurabile dalle lancette degli orologi. "Il tempo è tutto, l'uomo non è più nulla; esso diviene tutt'al più una carcassa del tempo". (Miseria della filosofia).

 

Ma se il capitale italiano riesce a superare la crisi dell'inizio degli anni '60 è proprio sulla base dell'assoluta inefficacia proletaria, nonché sulla possibilità di interventi statali e di partecipazione pianificata per ciò che concerne le necessità di reinvestimenti produttivi.

In effetti si può assistere ad un rilancio degli investimenti, e, con ciò, della produzione, che porta rapidamente il capitale italiano a livelli internazionali e concorrenziali, che avrebbero di lì a poco, negli anni '67-'68, portato ad un ripresentarsi delle crisi cicliche del capitale in termini di equilibri nuovi. In poche parole, se la crisi degli anni '60 rappresenta, tra l'altro, una crisi di inadempienza dell'organizzazione capitalistica italiana, in rapporto alle potenze capitalistiche estere, con la crisi mondiale della metà degli anni '60 si apre un periodo nuovo che vede l'Italia allineata con le altre potenze europee nell'attacco all'egemonia americana.

Per di più, e questo è evidentemente l'elemento più importante di analisi dal punto di vista rivoluzionario, con la metà degli anni '60 la crisi internazionale del capitale determina l'occasione storica del ripresentarsi sulla scena della lotta di classe del proletariato come negazione dell'esistente, e in special modo della particolare congiuntura mondiale, che incomincia ad essere riconosciuta come qualcosa di sostanzialmente separato dagli interessi diretti ed immediati del proletariato stesso.

Analizzeremo ora in special modo le caratteristiche di questo riapparire proletario in ciò che presenta di peculiare, e fermandosi naturalmente soprattutto sulla situazione italiana, che ci interessa in modo direttamente operativo, tanto più che le menzogne coscienti che sono state dette sullo autunno caldo del '69 e sulle lotte ad esso collegate meritano, una volta per tutte, di essere drasticamente demistificate.

Da Comontismo - Edizioni - Milano