A proposito della polemica di Carlo Ghezzi sulle critiche di neocorporativismo alla Cgil di Camusso.
Sul Corporativismo sindacale rimandiamo anche alla lettura del bollettino del Coordinamento Rsu del 1998 (in occasione della firma del Patto di Natale sindacato-confindustria-governo, poi non entrato a regime causa la caduta del governo ma che anticipa nelle sue grandi linee il patto sindacati-confindustria firmato lo scorso 28 giugno) - il documento è qui riprodotto in estratto - per vedere la versione completa andare alla pagina Tool-box.
Il giorno 3 luglio, sul Manifesto è pubblicato un intervento di Giuseppe Aragno che, a nostro parere giustamente, coglieva importanti similitudini tra l'impianto dell'accordo confederale firmato il 28 giugno scorso con il "Patto del lavoro" firmato il 2 ottobre 1925, più noto come "Patto di palazzo Vidoni".
Una similitudine che ovviamente porta a considerare il recente accordo confederale come una oggettiva deriva sindacale, se non proprio al corporativismo fascista, verso quella logica neocorporativa che da tempo investe il paese, nelle sue strutture politico-istituzionali e sindacali (sopratutto di Cisl e Uil che a questa deriva hanno aderito da tempo).
Due sono le questioni che l'accordo regola e che lo avvicinano allo stesso impianto generale del famoso "Patto di palazzo Vidoni"
Da un lato i sindacati e la Confindustria accettano di subordinare i loro comportamenti ad un interesse generale riconosciuto superiore agli interessi particolari che essi dovrebbero rappresentare..
Ovviamente ciò non è del tutto vero ... Chi ci perde in questo caso è l'indipendenza del sindacato visto che l'interesse generale viene individuato nel profitto, nella sua veste mediata di "produttività" e "redditività" di impresa.
Il sindacato rinuncia quindi a rappresentare immediatamente il quadro dei bisogni che il mondo del lavoro esprime, inquadrandoli in un comportamento sindacale che mira a partecipare al raggiungimento di obiettivi a cui si affida il compito di sostenere la ripresa economica.
Il patto firmato il 28 giugno mette quindi in discussione la centralità di un quadro contrattuale nazionale il cui perno era nella sostanza quello di unificare il più possibile le norme che regolano l'utilizzo della forza lavoro, in modo da favorirne l'unità e la resistenza di fronte alla crisi ed all'offensiva di capitale, aprendo ad una idea di adattabilità delle condizioni di utilizzo e controllo della forza lavoro a seconda delle esigenze concorrenziali delle singole imprese.
Infatti l'accordo è a conti fatti un patto dove il sindacato piega il suo tradizionale ruolo di unificatore del movimento a favore di una aziendalizzazione della patuizione in materia di prestazione, orario ecc. aprendo così la strada ad una strana solidarietà di intenti che si baserà inevitabilmente su una unità capitale-lavoro della singola azienda ordinata ed organizzata per agire in concorrenza con le alleanze capitale-lavoro nelle altre aziende.
In ciò, l'unica differenza col "Patto di palazzo Vidoni" del 1925 sta solo nel fatto che allora l'interesse comune a cui i comportamenti sindacali accettavano di subordinasi era esplicitato nel sostegno alla produttività come contributo alla potenza dello Stato e dell'Impero, mentre con il recente accordo il sindacato accetta la ricerca della massima produttività come libera iniziativa delle singole imprese, a cui va data la possibilità di eludere le rigidità contrattuali attualmente in essere attraverso una aziendalizzazione della contrattazione che favorisca l'adattabilità della forza lavoro e del suo utilizzo a seconda delle situazioni e degli obiettivi di impresa.
Da un altro lato, Sindacati e Confindustria stabiliscono una serie di regole per dare stabilità, efficacia ed esigibilità al patto firmato tra loro. Regole che di fatto si possono sintetizzare nel senso che, una volta che le burocrazie sindacali e Confindustriali si mettono d'accordo, questo accordo è valido subito ed è immediatamente esigibile. Quindi viene marginalizzata e resa residuale ed eccezionale la possibilità per i lavoratori di intervenire sulla trattativa, sull'accordo, e sulla possibilità di mobiltazione. Il Corporativismo fascista di palazzo Vidoni si tutelava con regole similari, fondandosi sull'idea (tipica dei regimi totalitari) che le organizzazioni riconosciute avessero in se un diritto di rappresentanza a prescindere.
Si potrebbe dire che, per chi come noi ha vissuto l'esperienza del sindacalismo rivendicativo e partecipativo degli anni 60-70, è dura digerire come l'ultimo accordo abbia di fatto sancito una forma di corporativisazione della rappresentanza che di fatto rende marginale la partecipazione e la democrazia sindacale, ma così è .... questo accordo rappresenta veramente una svolta a destra, una svolta di stampo neocorporativo e autoreferenziale delle organizzazioni, per altro già in corso in questi ultimi anni. Questo accordo ha però dato a questa deriva valore formale.
A questo accostamento dell'accordo del 28 giugno con la deriva neocorporativa non ci sta Carlo Ghezzi (ex segretario Cgil, ora presidente della Fondazione Di Vittorio) che risponde all'intervento di Giuseppe Aragno con stizza non celata, inviando una sua lettera pubblicata sul Manifesto del 6 luglio.
Leggi l'intervento di Ghezzi sul manifesto
Ghezzi respinge le critiche all'accordo vantandone invece i pregi. Secondo lui l'accordo salvaguarda i contratti nazionali ed il diritto di voto dei lavoratori.
Ma respinge sopratutto l'idea che questo accordo sancisca l'adesione della Cgil ad un modello di relazioni di tipo neocorporativo.
Le sue ragioni sono essenzialmente legate alla diversità del contesto attuale con quello che portò al Patto di via Vidoni.
Secondo Ghezzi il corporativismo fascista era ciò che era in quanto imposto dall'alto (dal regime) e non per libera scelta delle organizzazioni come è invece avvenuto ora.. Mel 1925, dice, c'erano i manganelli, si licenziavano i contestatori, era lo stato fascista a imporre un sistema di relazioni che subordinava e limitava l'azione sindacale, mentre ora non è così.
Certo Ghezzi ha ragione nel verificare che oggi non arriva la polizia politica ad arrestarti se starnutisci, ma è strano che non si accorga della condizione di ricatto e di forme più o meno celate di repressione a cui una sempre maggiore parte del mondo del lavoro è sottoposta.
Precarietà, disoccupazione giovanile mantengono sotto ricatto sempre maggiori masse di forza lavoro, e, più direttamente, aumenta il ricatto alla forza lavoro occupata stabilmente come dimostrano le vicende di Pomigliano e Mirafiori. Un ricatto che si estende man mano che le aziende chiedono più flessibilità, più adattabilità del lavoro alle pretese dell'impresa ed alle necessità della concorrenza. Un ricatto che sottintende una repressione che mira a fare apparire come fannullone il lavoratore che resiste e magari lotta contro l'aumento dello sfruttamento, come assenteista e non collaborativo il lavoratore che va in malattia o si lamenta delle condizioni di lavoro.
Ormai è senso comune (anche nel sindacato) che quei lavoratori (e quei sindacati) che difendono la rigidità delle norme contrattuali che li tutelano dall'aumento dello sfruttamento, dall'intensità di lavoro, dalla perdita di diritti, vengano considerati come irresponsabili e "corporativi".
I lavoratori non saranno repressi militarmente ma subiscono una subordinazione sempre maggiore a cui l'interesse di capitale li costringe, per altro con una tutela sindacale sempre più compromessa e indebolita dall'accettazione della produttività come obiettivo condiviso e necessario..
Certo inoltre che i sindacati non hanno firmato l'accordo di giugno perchè a chiederlo è stato il Ministro Sacconi. Lo hanno firmato di loro volontà, per loro interesse. Ma sappiamo bene, e lo sa anche il Ghezzi, che questo governo si riconosce e ben rappresenta lo spirito di quell'accordo. Infatti il Governo ne ha già riconosciuta la validità e l'importanza impegnandosi a sostenerne i contenuti ed a svilupparne le attese, ad esempio aprendo alla defiscalizzazione del salario di produttività ed a studiare interventi legislativi per rendere retroattive alcune parti.
Non siamo quindi di fronte ad un intervento diretto di un governo (come nel 1925) che impone un patto tra le parti sociali, ma siamo di fronte ad un patto tra le parti sociali sponsorizzato e sostenuto dal governo. Difficile quindi dire o pensare che non esiste deriva neocorporativa solo perchè non c'è la firma del governo sul recente accordo.
Comunque a questo accordo non ci si è arrivati casualmente. Cisl-Uil e Confindustria avevano da tempo fondato la lo loro alleanza neocorporativa iniziando da tempo a smontare il precedente quadro normativo e contrattuale.
La Cgil, in mezzo al guado, debole strategicamente, incapace di una scelta precisa, ha vissuto per anni senza strategia, semplicemente facendo quel che succede e con una ambiguità notevole di comportamenti.
Una confederazione molto attenta a non rompere con Confindustria ma attivissima nel mantenere le distanze dal governo (nella speranza di un ritorno del centro sinistra che si credeva possibile e prossimo), con le sue categorie che firmavano di tutto pur di non perdere il loro rapporto di affidabilità verso le controparti (ed in ciò contribuendo attivamente allo smantellamento del precedente quadro normativo e contrattuale), con solo la Fiom che difendeva convintamente il sindacalismo italiano da una offensiva padronale che mirava a liquidare le residuali resistenze di un sindacalismo partecipativo e rivendicativo, preoccupato cioè di rappresentare i bisogni che il mondo del lavoro esprime e non altro.
Oggettivamente bisogna riconoscere che la Cgil, almeno dal 2008, è rimasta contradditoriamente bloccata da uno scontro interno, tra chi cioè ancora agiva per la difesa dell'indipendenza sindacale e chi invece voleva accreditarsi verso le controparti manifestando quella responsabilità e disponibilità ad accettarne il punto di vista.
Questo ha risolto l'accordo di giugno. La Cgil ha scelto di non schierarsi con i lavoratori, contro l'offensiva padronale a cui sono sottoposti, ma di cercare nell'accordo su regole condivise con Confindustria da un lato, e Cisl-Uil dall'altro, un modo per salvare se stessa dall'isolamento in cui temeva di essere cacciata.
E questo sulla base di un ragionamento inconsistente.
Chi difende l'accordo (anche da sinistra) afferma infatti che quella firma è una vittoria perchè ha impedito l'isolamento della Cgil. Questo sarebbe un bene (una vittoria) per i lavoratori. Valutazioni identiche a quelle sostenute da quei sindacalisti moderati che aderirono al Patto di palazzo Vidoni appunto in nome della difesa del sindacato, a rischio di essere messo fuorilegge.
Ora, come allora, si scelse di salvare le organizzazioni in se, a scapito di un ruolo attivo e partecipato della classe lavoratrice, della sua autonomia nell'indicare le proprie rivendicazioni, subordinando queste al rispetto di un patto che tutto prevedeva, meno che i lavoratori potessero rifiutarsi di subirne le conseguenze. Si scelse cioè di aderire ad un sistema di relazioni autoreferenziale a scapito di un sindacalismo fondato sulla rappresentanza dei bisogni immediati del lavoro e della sua più generale emancipazione dalle servitù dell'accumulazione capitalistica.
Ghezzi ovviamente non la pensa così. Infatti lui spiega l'accordo di giugno così come le vede lui non per cosa comporta effettivamente.
Si premura però di ricordare come, per il fatto che la Cgil non sia stata costretta, ciò ne ha salvaguardato l'indipendenza, libera cioè di continuare ad essere un sindacato rivendicativo e partecipativo.
Ghezzi riduce la categoria di corporativismo sindacale solo ai regimi totalitari, quasi che il corporativismo sindacale sia tale solo se risultato di una forzatura, di un moto repressivo ecc.
Ma il corporativismo è prima di tutto un modello di relazioni sindacali che esalta l'autoreferenzialità delle organizzazioni, sulla base di un patto di reciproca riconoscenza e accreditamento, fondato sull'accettazione di un obiettivo comune, quale esso sia .... la difesa dello Stato e dell'Impero, o l'aumento della profittabilità di impresa.
Esperienze di corporativismo sindacale non sono inoltre così rare. Al corporativismo fascista, fa eco, ad esempio, il corporativismo del sindacalismo americano (sopratutto nell'immediato dopoguerra fino alla fine della guerra nel vietnam) che certo non è stato imposto dall'alto, visto che molti, anche nel sindacato, vantano l'America come culla della democrazia..
Quindi fa bene il Ghezzi a ricordare che il Patto di palazzo Vidoni è figlio del suo tempo e di quel contesto, così come dovrebbe onestamente capire che diversi tempi e contesti possono produrre forme diverse di corporativismo.
Il neocorporativismo sindacale dell'Italia di oggi è figlio della debolezza di questo sindacato, incapace di sostenere lo scontro che l'offensiva padronale ha da anni scatenato alla struttura contrattuale, ai diritti, alle tutele conquistate nei decenni scorsi.
Il neocorporativismo sindacale dell'Italia di oggi è frutto di una scelta fatta da una burocrazia incapace di riconoscere i caratteri dell'offensiva padronale, spaventata dalla possibilità di sconfitta, di isolamento, di perdita di potere derivante dalla sempre maggiore debolezza di un movimento dei lavoratori frantumato dalla crisi e indebolito dagli arretramenti sindacali di questi ultimi anni, che pensa di salvare se stessa accettando un patto che tuteli il riconoscimento formale del suo essere organizzazione.
Certo la Cgil ha salvato se stessa dall'isolamento, ma .... appunto .... ha salvato solo se stessa, lasciando i lavoratori ancora più soli, divisi e con meno tutela contrattuale.
La natura neocorporativa di questo patto è poi fondata da quel sistema di regole, concordato per rendere agibile, esigibile il patto stesso, tutelandolo da tutte le pressioni esterne (dei lavoratori) che potrebbero incrinarne la tenuta.
Certo non è il Patto di palazzo Vidoni, ma ha la stessa logica.
COORDINAMENTO RSU