Bellaria. Contributo di Scacchi e Grisolia
In un'area sindacale plurale (con diverse sensibilità, impostazioni e linguaggi), questo contributo si propone di concorrere alla costruzione di campo di confronto comune, presentando una riflessione che aiuti ad approfondire la discussione e ad articolare collettivamente l'elaborazione.
Luca Scacchi e Franco Grisolia
Il 17° congresso della CGIL si è chiuso con la costituzione della nostra area di opposizione. Non era una conclusione scontata. L'assemblea congressuale di Rimini si era infatti aperta con la nostra denuncia sul furto di democrazia. Non segnalavamo la "scontata" sperequazione tra una maggioranza con migliaia di funzionari e i nostri pochissimi distacchi, ma una palese manipolazione dei dati. Ad esempio a Trieste, dove "avevano votato" più di mille pensionati in Croazia e Slovenia, moltissimi con più di 90 anni, alcuni persino morti! "Avevano votato" più a Napoli che a Milano, a Palermo più che a Torino, a Caserta più che a Brescia: piccole realtà con partecipazione "bulgare", quando strutture storiche avevano registrato partecipazioni molto inferiori. Dove si era "partecipato", abbondavano i 100% di votanti, tutti al primo documento e tutti contro gli emendamenti! Il nostro risultato era stato quindi schiacciato ben sotto al 3% quando, al netto delle manipolazioni più evidenti, si era presumibilmente collocato sul 5-7%. Come erano stati compressi gli emendamenti "critici".
In questo quadro, in alcuni congressi di categoria ed in alcuni territori eravamo stati esclusi dai direttivi (FILT, FILCAMS, Firenze, Calabria, ecc). Così sembrava si potesse concludere anche il congresso nazionale, dove la gestione di Scudiere preannunciava la nostra marginalizzazione: obbligo del 3% per presentare liste al Direttivo, esclusione dagli organismi collaterali e annuncio di una conferenza in tempi brevi per modificare il quadro organizzativo, l'autonomia delle categorie, le regole interne. Ma se la maggioranza voleva imporre le proprie scelte, anche un po' "con le spicce", ha trovato una resistenza maggiore del previsto nelle aree critiche (il risultato della seconda lista, che riuniva landiniani, exCgilchevogliamo e metà di Lavorosocietà), nella determinazione del nostro documento (presidio, appello al congresso per le firme, ecc), nelle perplessità di una parte della stessa maggioranza (intervento di Colla, segretario dell'Emilia, nella lunga pantomima finale sulla votazioni delle commissioni). E quindi alla fine Camusso è uscita dal congresso più debole di prima.
Un passo indietro: nascita e tramonto di una maggioranza unitaria
Il percorso congressuale si era aperto nell'estate precedente in un quadro diverso, con la costruzione di un nuovo rapporto tra i gruppi dirigenti di FIOM e CGIL. Questa convergenza si era prodotta per il combinarsi di diverse prospettive.
Da una parte la FIOM cercava un percorso di uscita dal conflitto FIAT: dopo l'allargamento del modello Marchionne all'intero gruppo (compreso realtà ad alta sindacalizzazione CGIL come Magneti Marelli o Ferrari), dopo l'accordo Bertone (comprensivo del modello Marchionne), ci si era concentrati sul contrasto giudiziario, anche vincendolo (sentenza del luglio 2013), ma senza comunque cambiare i rapporti di forza. Per questo, anche in vista del rinnovo del CCNL, si intendeva voltare pagina: dopo aver isolato la sinistra interna, anche contro lo Statuto della CGIL (esclusione di Sergio Bellavita dalla segreteria nazionale), la FIOM stava riflettendo su una linea di gestione contrattata delle crisi industriali (ipotesi poi sfociate nei contratti Ducati o Electrolux). La necessità di un cambio di fase suggeriva quindi un diverso rapporto con la confederazione, in grado magari di produrre un accordo generale sulla rappresentanza (intesa del maggio 2013) e un nuovo sistema contrattuale, attraverso cui appunto chiudere la vicenda Marchionne.
Dall'altra parte la CGIL aveva visto sbriciolarsi la sua linea "di fase", la riconquista di una gestione condivisa della crisi come nella precedente esperienza del '92-'94. Dopo il governo Berlusconi-Tremonti e gli accordi separati, dopo il governo Monti-Fornero e le forzature dei tecnici, la CGIL puntava infatti sull'atteso "governo amico" come leva per ricostruire una concertazione sia con CISL e UIL, sia con laConfindustria di Squinzi. Il risultato elettorale, al contrario, non solo aveva cancellato il previsto governo Bersani, ma aveva lanciato Renzi alla conquista del PD ed aveva insediato il governo Letta-Alfano, la cui maggioranza comprendeva i principali protagonisti del precedente isolamento (da Brunetta capogruppo PdL alla Camera, a Sacconi presidente della commissione lavoro del Senato). Il gruppo dirigente della CGIL propendeva quindi per una gestione unitaria del congresso, chiudendo le ferite prodotte con l'alleanza anticamussiana degli allora gruppi dirigenti di FIOM, FP e FISAC (Rinaldini, Podda e Moccia), dalla rete28aprile, da alcuni residuali settori cofferatiani (Maolucci, Guzzonato e l'ex-socialista Rocchi).
Nel corso dell'estate 2013 sembrava quindi delinearsi una larga maggioranza, con un documento alternativo ridotto alle componenti di sinistra che rifiutavano tale impostazione: larga parte della rete28aprile e altri piccoli settori che si schieravano all'opposizione. Alcune tensioni permanevano comunque nella larga maggioranza, in particolare per l'intenzione del gruppo dirigente FIOM di non perdere la propria autonomia di movimento, anche con l'obbiettivo esplicito di conquistare la direzione della CGIL. Il seminario di Genova (settembre 2013) era infatti segnato dalla richiesta delle "primarie", per permettere "una scalata dei gruppi dirigenti". L'inverno poi si apriva con la tessitura di una relazione pubblica tra Landini e Renzi, con l'ipotesi di una nuova legge sulla rappresentanza da inserire nell'imminente Job Act. La risposta della Camusso è rapida: il 10 gennaio 2014 è improvvisamente siglato l'accordo sul nuovo sistema di rappresentanza, che presenta gravi vizi democratici (presentazione liste, piattaforma negoziale di maggioranza), irreggimenta le RSU (dimissionate se non più nell'organizzazione sindacale), impone un elemento centrale del modello Marchionne (esigibilità e sanzioni) e, contro la FIOM, inserisce una tutela sulle categorie (commissione arbitrale confederale). L'accordo del 10 gennaio, quindi, chiudeva la fase unitaria ed apriva il congresso con una nuova e più acuta tensione tra FIOM e CGIL, nella quale alcune aree critiche rompevano con la Camusso (Patta e Nicolosi), mentre altre decidevano di ricomporsi con la segreteria (poddiani, Dettori e Pantaleo, Botti e Lami).
Lo scontro tra Camusso e Landini ha quindi al contempo chiuso e dischiuso alcuni spazi per la nostra area. Ha chiuso degli spazi, perché la durezza dello scontro nella cosiddetta "maggioranza" è quello che probabilmente ha determinato le manipolazioni più ampie, contro gli emendamenti, avendo come effetto collaterale anche quello di schiacciare i risultati della nostra area. Ha nel contempo dischiuso degli spazi, perché lo scontro a Rimini ha permesso di riconquistare anche per noi alcuni minimi spazi democratici (riconoscimento minoranze, presenza nel direttivo e nelle commissioni, reinserimento nelle strutture dalla quali eravamo stati esclusi).
Il sindacato è un'altra cosa: per un'opposizione classista e anticapitalista.
Il 17° congresso ha quindi permesso la costituzione di un'area di opposizione in CGIL. Un'area legittimata dal documento alternativo, dal voto di decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici, dallo sviluppo coerente di una battaglia dalle assemblee di base sino all'assise confederale. Un percorso quindi relativamente sganciato dalle compatibilità e dalle determinazioni della burocrazia sindacale.
Un'area che si è costituita su due assi principali. Da una parte l'opposizione alla linea della CGIL, ritenendo fondamentale e fondante distinguersi dal gruppo dirigente (Camusso) che aveva testardemente rifiutato il conflitto, anche quando la crisi aveva determinato l'offensiva padronale contro occupazione, salari e diritti. Dall'altra parte la distinzione dalle altre aree critiche. Quella di Dettori e Pantaleo, che saldamente dentro la maggioranza spera(va) di modificarne gli assetti attraverso scelte contingenti (dallo sciopero generale alle privatizzazioni). Quella storicamente organizzata di Lavorosocietà, più attenta alle compatibilità burocratiche che allo sviluppo coerente della propria linea. Quella del gruppo dirigente "sabbatiniano", autocentrato su un impianto categoriale e sulla conquista della direzione della CGIL. Essendo questa l'area critica più significativa, dirigendo la FIOM, soffermiamoci sulla sua impostazione. La linea sviluppata da questo gruppo, che da un ventennio dirige la FIOM, è storicamente impostata sul radicamento di fabbrica e su una logica vertenziale, tendendo quindi ad evitare processi di ricomposizione delle lotte (come evidenziato sia nel 2002-04, sia dopo il 2010). In questo quadro, stante l'empasse determinata dalla vicenda FIAT, avendo abdicato alla generalizzazione del conflitto quando aveva assunto un ruolo di opposizione generale (cortei FIOM 2011 e 2012), si è posto l'obbiettivo di fase della conquista della CGIL.
I processi di demarcazione che hanno costituito la nostra area si sono quindi progressivamente determinati nell'ultimo decennio, a partire dalla Rete28aprile, cioè da quei compagni e compagne della sinistra CGIL che hanno iniziato a coordinarsi partendo dall'opposizione alla linea di Epifani prima e Camusso poi, da un bilancio dell'involuzione burocratica di Lavorosocietà, dal ripiegamento della vasta coalizione della CGILchevogliamo. Nella CGIL sono sempre vissute diverse sinistre, sulla base delle diverse appartenenze, dei diversi posizionamenti nei confronti della segreteria, delle dinamiche di diversi settori di classe. Il compito che abbiamo oggi è allora quello di dare un fondamento ed una prospettiva di fase a questa area, che da un percorso di opposizione e distinzione delinei una propria strategia. Noi pensiamo cioè che sia necessario dare a quest'area la prospettiva di una corrente classista e anticapitalista.
Una corrente classista.
Cosa intendiamo per classista? Intendiamo che, in una società dominata dal modo di produzione capitalista, gli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici sono direttamente contrapposti a quelli del capitale. Questo modo di produzione, nei secoli del suo sviluppo, ha composto un mercato mondiale che domina l'intera organizzazione sociale, intensivamente (in ogni particolare formazione sociale) ed estensivamente (sul piano internazionale). Certo, rimangono diversi settori che non sono direttamente inseriti nei processi di valorizzazione del capitale: da molti servizi pubblici all'autoproduzione, da organizzazioni cooperative tradizionali a strutture comunitarie. E conseguentemente si determina una complessa articolazione di classe: piccoli produttori contadini e artigiani, commercianti indipendenti, lavoratori e lavoratrici autonomi/e di vecchia e di nuova generazione; anche nello stesso lavoro dipendente, ampi settori non sono direttamente subordinati ai processi di valorizzazione (dal pubblico ad alcuni servizi). La forza dominante però, quella che organizza il complesso e le dinamiche fondamentali della società, è data dal modo di produzione capitalista: il ciclo di crescita o crisi economica, i rapporti tra i diversi paesi e le diverse aree mondiali, le relazioni tra gruppi e classi sociali, sono determinati in ultima istanza dai processi di accumulazione e valorizzazione capitalista. E quindi diritti, salari e condizioni dell'insieme del mondo del lavoro sono fondamentalmente determinati dalle relazioni generali tra capitale e lavoro che si determinano nei processi di valorizzazione capitalista.
Le imprese centrate sulla valorizzazione del capitale (pubbliche o private), che hanno cioè un'organizzazione capitalistica della produzione, si sviluppano attraverso lo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici. In queste realtà, lavoratori e lavoratrici ricevono un salario sulla base della distribuzione del plusvalore tra capitale e lavoro: vivono cioè direttamente una relazione antagonistica con il capitale, che si personifica concretamente nel padrone o nella direzione aziendale. Certo, lavoratori e lavoratrici produttivi (di capitale) sono anche capitale vivo: cioè dipendendo la loro riproduzione dal capitale, propendono anche ad assumerne la prospettiva. Gli uomini e le donne che vengono subordinati ai processi di valorizzazione del capitale, però, sviluppano anche una propria autonomia di classe: rimane cioè un elemento umano irriducibile alle logiche del capitale, alla sua volontà di sussunzione. Lavoratori e lavoratrici sono quindi una variabile indipendente, che può ribellarsi ed opporsi al controllo del capitale.
Il sindacato per noi si organizza e si fonda su questa autonomia di classe: sull'irriducibilità oggettiva dei lavoratori e delle lavoratrici, sui loro interessi antagonisti a quelli del capitale. Per questo, il sindacato intende organizzare l'insieme dei lavoratori e delle lavoratrici, senza distinzione di settore o categoria, perché intende organizzare gli interessi collettivi del lavoro contrapposti agli interessi collettivi del capitale. Consapevole quindi di un'articolazione e stratificazione del mondo del lavoro, intende organizzare il lavoro in senso generale vis-a-vis al capitale in senso generale.
Una corrente anticapitalista.
Cosa intendiamo per anticapitalista? Abbiamo già sottolineato che per noi il sindacato è di classe, perché lavoratori e lavoratrici hanno interessi antagonistici a quelli del capitale. Non intendiamo quindi ribadire questo aspetto. Il modo di produzione capitalista, oltre che esser basato sull'alienazione (controllo del lavoro) e sullo sfruttamento (estrazione di plusvalore), oltre che determinare crisi cicliche per le sue modalità di accumulazione, oltre che sviluppare una socializzazione delle forze produttive mantenendo un'appropriazione privata del valore, è determinato da una contraddizione di fondo: la ricerca di un'espansione continua del valore che tende nel contempo a distruggere le basi della sua esistenza (tendenza alla diminuzione del saggio di profitto).
Il modo di produzione capitalista, cioè, tende a produrre un'immane espansione della produzione materiale come veicolo per la sua necessaria espansione di valore. Così ha determinato una secolare espansione demografica, l'innalzamento della speranza di vita e la riduzione della mortalità, la crescita esponenziale del benessere sociale. Questa incontrollata espansione ha prodotto nel contempo un immane sfruttamento umano e ambientale, che ha quindi sviluppato forze sociali antagoniste. Ma il punto principale che si vuole sottolineare non è l'ingiustizia o il rischio per l'ecosistema umano, che giustificano solamente su un piano etico l'antagonismo al sistema. Quello che vogliamo indicare con l'aggettivo anticapitalista è che questo sistema di produzione presenta anche un'immanente tendenza alla depressione. Non solo il suo sviluppo è segnato da un ciclico alternarsi di espansioni e crisi, ma è segnato anche da una tendenza a ridurre progressivamente le basi stesse dell'estrazione del plusvalore. Nell'alternarsi ciclico di espansioni e crisi, cioè, si evidenziano alcune fasi generali di crescita, nei quali salari e profitti possono crescere insieme: fasi che hanno rappresentato la base fondante dei compromessi tra capitale e lavoro, nei limiti dell'espansione della valorizzazione e della crescita della produttività. Ma queste fasi tendono inevitabilmente a collassare in grandi crisi, risolvibili solo con immani distruzioni di capitale esterne allo stesso ciclo economico (guerre, lunghe depressioni, barbarie, ecc). Le ragioni di una lotta sindacale anticapitalista non stanno quindi né semplicemente nella difesa degli interessi antagonistici del lavoro, né in una scelta di campo etica contro l'ingiustizia: stanno nell'immanente tendenza economica alla crisi che accompagna inevitabilmente l'immane espansione capitalistica.
Nella CGIL, per costruire le condizioni di un sindacato classista e anticapitalista di massa. Un'area sindacale classista e anticapitalista, quindi. Ci si può domandare, di fronte agli ultimi decenni, le ragioni per costituirla in CGIL, invece di cercare di avviare percorsi di raggruppamento con e fra le altre organizzazioni classiste e di base (i diversi Cobas, USB, CUB, ecc). La CGIL ha infatti assunto oramai stabilmente un'impostazione "concertativa": la ricerca di una gestione condivisa con il capitale sia nelle fasi di espansione, sia in quelle di crisi (patto dei produttori). Cioè una linea strategica che tende a circoscrivere, se non a negare, l'antagonismo tra lavoro e capitale, nella prospettiva di trovare forme di regolazione del modo di produzione capitalista. Quindi una concertazione non tanto rivolta al governo, quanto principalmente al padronato stesso. Questa impostazione appare immodificabile, per la profondità con cui si è strutturata negli anni e nella complessa struttura burocratica che innerva questo sindacato. E anche perché, al fondo, questa strategia si inscrive nell‘intera storia di questa organizzazione. Tralasciamo pure le vicende della CGdL prima del ventennio, le sue profonde responsabilità nell'ascesa del fascismo e la scelta del suo gruppo dirigente di scioglierla nel 1927 (vero e proprio tradimento della lotta antifascista). La CGIL del dopoguerra, quella rifondata nel 1944 con il patto di Roma (PCI, PSI e DC), ha comunque mantenuto una propensione di fondo a rispettare le compatibilità di sistema, le esigenze di sviluppo "del paese". Infatti non solo il gruppo dirigente socialista, ma anche la larghissima parte di quello del PCI ha impostato nel dopoguerra una linea strategica di inserimento nel ceto dirigente del paese senza mettere in discussione il quadro capitalistico del paese (linea che fu poi definita organicamente da Togliatti nell'VIII congresso del partito), elaborando anche per questo un'analisi sull'arretratezza del capitalismo italiano e sulla necessità di sostenere lo sviluppo delle forze produttive (i cui principali propugnatori furono Amendola, Sereni, Roveda). Di conseguenza, anche dopo la scissione della CISL e della UIL, la CGIL si è contraddistinta in diversi passaggi storici per la ricerca di un accordo di fase con il padronato. Dalla linea di moderazione salariale centralizzata nell'immediato dopoguerra alle priorità industriali del Piano del lavoro; dall'accordo quadro del 1972 alla linea dell'Eur nel 1978; dall'accordo Scotti del 1983 alla fine della scala mobile nel 1992; dal nuovo sistema contrattuale del 1993 alla riforma delle pensioni del 1995.
La CGIL è comunque sempre stata un'organizzazione di massa, il principale sindacato italiano, schierata a sinistra dopo la scissione del luglio 1948: nel quadro della strategia del PCI (che ne ha mantenuto controllo ed egemonia sino al suo scioglimento), nel quadro di una gestione condivisa con il PSI, ha però raggruppato storicamente diverse sensibilità. La CGIL ha quindi sviluppato nella sua storia una dialettica ed una pluralità di linee, anche negli anni del più rigido stalinismo: diverse sinistre sindacali, dissensi e minoranze hanno sostenuto linee che si sono differenziate o contrapposte a questa impostazione moderata dell'organizzazione. La CGIL, infatti, nonostante il controllo del PCI ed il patto di gestione con il PSI, ha attraversato diverse fasi e diversi gruppi dirigenti, intrecciando sensibilità e linee diverse. Così negli anni cinquanta e sessanta diversi settori hanno condotto una battaglia per analizzare la nuova fase espansiva del capitale italiano, per dare autonomia contrattuale alle categorie, per avviare una contrattazione decentrata, per aprire vertenze sulle condizioni e l'organizzazione del lavoro. Così nel corso dell'autunno caldo si è combattuta (e vinta) la battaglia per introdurre la rivendicazione degli aumenti uguali per tutti. Così anche da settori militanti della CGIL si sono sviluppati i comitati di base e il movimento dei consigli, così nel 1972 si è imposto il CCNL metalmeccanico prima che "l'accordo quadro" potesse acquistare solidità. Così si sono espresse resistenze alla linea dell'EUR (a partire dai pochi voti contrari all'assemblea generale del 1978), si è costituita una componente di opposizione (Democrazia consiliare), si è sviluppata la lotta contro l'accordo Scotti prima (1983) e con il movimento degli autoconvocati poi. Un intreccio di diverse linee che ha caratterizzato la CGIL in un senso, e anche nell'altro: ricordiamo infatti che la FIOM, nei primi anni novanta, si vantava di rinnovare il CCNL senza neanche un'ora di sciopero, diretta da Fausto Vigevani (primo segretario socialista), con Cesare Damiano come aggiunto (sì, quel Damiano, attuale presidente della Commissione Lavoro alla Camera che ha votato "criticamente" il JobAct). Certo, in questi ultimi vent'anni i processi di degenerazione burocratica sono stati particolarmente significativi, parallelamente all'indebolimento della classe e della sinistra politica nel nostro paese. Certo, dopo lo scioglimento del PCI si è espressa più esplicitamente la sua impostazione moderata, tesa a negare l'irriducibile antagonismo tra capitale e lavoro. Questi processi, inoltre, sono stati accompagnati dallo sviluppo del sindacato dei servizi, dalla crescita dello SPI, dalla riduzione delle categorie che organizzano il nucleo centrale di classe (quello produttivo di capitale e più organizzato). Negli ultimi congressi è diventata sempre più arrogante la gestione burocratica dell'apparato e delle segreterie, con manipolazioni evidenti dei risultati e della selezione dei gruppi dirigenti. Come vediamo la gravità delle scelte e anche dei tradimenti di questi anni (a partire da quello del 10 gennaio 2014), che hanno coinvolto anche componenti percepite come conflittuali (ad esempio la FIOM su Termini Imerese, la Bertone o l'accordo preliminare del 31 maggio 2013 sulla rappresentanza).
Nonostante questo, la CGIL mantiene ancora una dimensione di massa, la capacità di innescare mobilitazioni di massa (articolo 18 nel 2003, vertenza FIAT nel 2010, JobAct nel 2014), un'impostazione di sinistra, la vocazione a organizzare il mondo del lavoro in generale. In questo quadro, la CGIL rimane un'organizzazione sindacale senza possibili paragoni con l'insieme del sindacalismo di base e dintorni: raccoglie infatti oltre 2,5 milioni di lavoratori e lavoratrici attivi, contro al massimo 150mila per l'insieme di tutti i diversi sindacati conflittuali extraconfederali (dalla CUB alla USB, dai diversi Cobas ad alcune strutture categoriali come i CAT nelle ferrovie). Permangono quindi in CGIL dinamiche contraddittorie, che ne fanno un luogo centrale di battaglia e di organizzazione di una linea anticapitalista e di classe a livello di massa. In un contesto in cui non secondario è il suo carattere plurale (pur con tutti i limiti che abbiamo evidenziato), con lo stesso riconoscimento statutario dai primi anni novanta delle aree organizzate.
Per noi ha quindi senso provare a rilanciare un sindacato classista e anticapitalista nella CGIL, non limitandosi alla critica o al dissenso negli organismi dirigenti. Il senso di una nostra presenza organizzata nella CGIL è quello di sfruttarne articolazioni e contraddizioni per sostenere il conflitto di classe, e quindi per sviluppare in una dinamica di massa un'azione sindacale di classe e anticapitalista. In questo quadro, è necessario intervenire come area sindacale nelle dinamiche del conflitto di classe. Anche per contrastare la tendenza ad esser inglobati in una logica burocratica di pura riproduzione, che ritmi, prassi e ritualità di una grande organizzazione di massa tendono a innescare. Nella limitatezza delle nostre forze, è quello che abbiamo provato a sperimentare in questi pochi mesi di vita. Dopo l'annuncio della controriforma della scuola, non ci siamo limitati a criticare il giudizio articolato della FLC o a chiedere lo sciopero nel Direttivo nazionale: abbiamo contribuito a organizzare assemblee e iniziative di lotta, come il percorso degli "autoconvocati", anche invitando come area nella FLC, con comunicati e volantini, a partecipare allo sciopero del 10 ottobre convocato dai sindacati di base. Nello stesso modo, come area lombarda e nazionale, abbiamo contribuito a organizzare la contestazione a Renzi in Val Seriana, all'assemblea della Associazione industriale bergamasca, una delle prime ad ottenere un'attenzione sui media e nel paese. Come, a livello ancor più generale, sin dall'estate abbiamo lanciato come area un appello per un autunno di lotta; abbiamo partecipato allo Street Meeting di Roma; ci siamo coordinati in questo percorso con i sindacati di base; abbiamo partecipato ed invitato a partecipare, con comunicati e volantini, allo sciopero generale del 14 novembre.
Contro lo "sciopero sociale", per un fronte di lotta vasto e articolato.
Costruire un'area classista e anticapitalista nella CGIL non significa distanziarsi dagli altri movimenti. Anzi. In una fase segnata dallo sfondamento padronale e dalla scomposizione di classe, è importante costruire fronti di lotta con diverse opposizioni sociali. Siamo consapevoli infatti che esistono altre soggettività, che interpretano e costruiscono mobilitazioni con una diversa prospettiva di lotta. Ad esempio quelle redistributive, che intendono contrastare le politiche neoliberiste e costruire sistemi regolativi del modo di produzione capitalista (vedi la popolarità di Piketty in questi mesi). Inoltre, ed in particolare, dopo il successo dei cortei antagonisti (ottobre 2011, ottobre 2013, aprile 2014), si è diffusa con il 14 novembre la proposta dello "sciopero sociale". Questa rappresentazione politica del conflitto, di natura biopolitica (Toni Negri, Michel Hardt) o da capitalismo cognitivo (Andrea Fumagalli, Yann Moulier Boutang, Bernard Paulré), ritiene che la produzione è oggi "socializzata": sono le relazioni che valorizzano il capitale, attraverso le potenze del general intellect e la diffusione di prodotti immateriali (conoscenze, creatività, brand, ecc). Secondo queste impostazioni, il dominio "del capitale" si determina attraverso forme diffuse di controllo sociale o sistemi finanziari transnazionali (dalla microfisica del potere alla gestione della moneta e del debito pubblico). In questo quadro di riferimento non c'è più alcun senso nel condurre una lotta sul salario (spartizione del plusvalore tra lavoro e capitale) o sull'organizzazione del lavoro (tempi, ritmi e intensità del lavoro), in quanto il lavoro stesso è sussunto all'interno di un sistema che vede altrove l'origine del valore. Né ha senso, d'altra parte, uno sciopero politico, in quanto lo Stato è sussunto dal "sistema imperiale" e "biopolitico" del potere. Il conflitto si trasferisce allora in un diverso sistema di riferimento, dove l'elemento centrale è la volontà di potenza collettiva, la costruzione di un potere costituente policentrico che riunisce l'insieme dei liberi autoproduttori sociali di valore ("una sola moltitudine"). E' quindi una strategia che privilegia dinamiche di ribellione sociale ("sollevazione", striscione di apertura e parola d'ordine del corteo romano del 19 ottobre), la costruzione di zone liberate, la produzione sociale autovalorizzante (come per beni comuni o open source) o al limite la battaglia per il riconoscimento del contributo di tutti alla produzione di valore (reddito di cittadinanza). La lotta può quindi esser condotta attraverso uno "sciopero sociale", cioè il rifiuto volontaristico del nuovo proletariato cognitivo e relazionale di assoggettarsi al capitale: in generale tutte le persone che, non avendo altro bene se non la propria mente, sono produttivi anche se non lavorano in quanto connessi alle reti sociali creative; in particolare ci si rivolge a quei settori di lavoratori autonomi di seconda generazione, professionisti ICT, giovani precari e inoccupati che si organizzano nelle reti dei movimenti antagonisti.
Questa rappresentazione del conflitto è radicalmente altra rispetto alla nostra prospettiva di un sindacato di classe e anticapitalista, perché nega persino il senso di un'organizzazione sindacale. E', appunto, un'altra prospettiva. Con cui possiamo costruire iniziative comuni ed un fronte di lotta, tenendo conto che talvolta tende ad oscillare tra un vuoto radicalismo di piazza e accordi di vertice con amministrazioni locali o burocrazie sindacali. Ma che, in ogni caso, non ha senso assumere come impostazione del nostro intervento.
Nel pieno di una fase di lunga crisi e depressione.
La costruzione di un'area classista e anticapitalista avviene in una fase particolare. Siamo nel pieno di una delle grandi crisi del capitalismo. Un crisi che non trova il suo fondamento nei disequilibri del mercato mondiale o nella mancanza di controllo di un sistema finanziario ipertrofico, e neanche in una riduzione salariale imposta dalle politiche neoliberiste che restringe la domanda aggregata. Nonostante nella sinistra e nel mondo sindacale queste siano le analisi prevalenti, politiche keynesiane di espansione della spesa pubblica o aumenti diffusi dei salari non riavvieranno una fase di espansione della valorizzazione capitalistica. Al più, introdurranno delle controtendenze che dilazioneranno i tempi della crisi stessa. Perché la causa fondante dell'attuale grande crisi (come delle precedenti) è strutturale, è la riduzione tendenziale del saggio di profitto e la conseguente sovrapproduzione di capitali. Una tendenza che è stata combattuta attraverso diverse controtendenze: la crescita esponenziale del sistema finanziario, che permette di impiegare e distruggere grandi quantità di capitale in speculazioni sempre più immani; l'espansione in nuovi territori, prodotti o spazi (l'inserimento nei processi di valorizzazione capitalista di nuove popolazioni, di nuove merci, dei servizi pubblici o sociosanitari); la diminuzione del salario diretto, indiretto e sociale con le politiche neoliberiste. Ma alla fine si è comunque inevitabilmente prodotta una grande crisi sistemica.
Come abbiamo già detto, il sistema capitalista ha conquistato da tempo l'articolazione di un mercato mondiale, che è stata rilanciata dal crollo del "socialismo reale" e dalla conseguente espansione capitalista. In questa articolazione mondiale, il ciclo capitalista è segnato anche da uno sviluppo ineguale e combinato. L'articolazione cioè tra poli imperialisti, formazioni sociali a capitalismo avanzato, paesi in via di sviluppo, aree periferiche, zone in regressione si organizza quindi su diverse dinamiche tra loro fortemente interconnesse. In questo quadro, l'attuale lunga crisi è segnata dall'emersione di nuovi poli capitalisti (Cina), come dallo sviluppo capitalista in Africa, in Asia ed in altre periferie. Aree del mondo nelle quali centinaia di milioni di persone sono entrate nei circuiti di valorizzazione capitalista, hanno abbandonato i loro piccoli mercati di autoproduzione contadina o artigianale, hanno conosciuto migrazioni di massa verso le città (oggi più del 50% della popolazione è urbana). In diversi territori (Cina, Cambogia, Vietnam, Indonesia, ecc) stiamo attraversando una fase di lotte sospinte da salari crescenti, dalla conquista di un salario indiretto (pensioni) e di un salario sociale (sanità, istruzione, ecc), nel quadro di un accelerato sviluppo capitalista.
Questa non è però la fase che noi stiamo vivendo. I percorsi di integrazione europea hanno avviato processi di redistribuzione del sistema produttivo tra il suo nucleo e la sua periferia. La rigidità di un sistema monetario unico, impedendo svalutazioni ed adattamenti tra diverse aree, ha innescato nelle periferie processi di deflazione salariale e di restringimento della base produttiva. Ha cioè determinato una fragilità di questi apparati, su cui è precipitata la recessione del 2008/09 (crollo della produzione e del PIL in Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda), che la successiva crisi dei debiti pubblici nel 2012 ha semplicemente aggravato (riduzione investimenti pubblici e sostegno ai propri capitali). Dall'adozione dell'Euro, ad es., l'Italia ha visto un'erosione delle proprie esportazioni: tra il 1999 e il 2010 sono aumentate in media del 2% all'anno, contro il 4,2% della zona euro (ISTAT 2013). Questa dinamica ha rilanciato lo sviluppo del nucleo produttivo continentale, attraverso la crescita delle esportazioni intra ed extra europee (maggior surplus mondiale per la Germania, crescita Polacca ed in genere centroeuropea).
In questo quadro, l'Italia è stata segnata non tanto da una doppia recessione (2009-2012), quanto da una vera e propria lunga depressione. Il PIL italiano è infatti oggi inferiore di circa il 10% rispetto a quello del 2007, senza mai aver recuperato quanto perso nel 2009. Nello stesso tempo, la produzione industriale si è ridotta del 25% (dati ISTAT 2014). Ma soprattutto si è determinato un restringimento della base produttiva: per Banca d'Italia (2014) si è perso circa un quinto della capacità del paese. Non a caso dal 2011 calano costantemente gli investimenti, sia quelli pubblici (strade, trasporti, reti, ecc, che riducono la produttività totale dei fattori del nostro sistema industriale), sia quelli privati (uno studio universitario individua dal 2007 una crescita progressiva del tempo di ammortamento del macchinario nelle imprese italiane). E' in questa riduzione della base produttiva italiana, non tanto nella politica di austerità, che trova origine l'enorme espansione della cassa integrazione, le tante crisi industriali, la crescita della disoccupazione. La crisi ha però comportato anche l'innesco di processi di trasformazione. In questi sette anni l'Italia si è confermata il secondo paese manifatturiero europeo dietro la Germania. Negli ultimi anni si è attenuata l'erosione delle esportazioni: nel periodo 2010-2013 la crescita annuale media è stata del 2,7%, contro il 3,4% della zona euro (ISTAT, 2013). Alcune delle imprese più grandi e produttive sono quindi riuscite a aumentare o mantenere le proprie esportazioni al di fuori della zona euro (Commissione Europea, Squilibri macroeconomici, Italia 2014). Negli ultimi due anni, infatti, si è anche riuscito a recuperare un surplus nella bilancia commerciale del paese (ISTAT, 2014), con aree che sono cresciute significativamente (in particolare Liguria, Marche, Puglia ed Emilia-Romagna) ed altre in forte diminuzione (Sicilia, Sardegna, Basilicata). Questi dati indicano che nella contrazione della base produttiva, alcuni settori si sono ristrutturati. L'Italia dei distretti si è trasformata in un'Italia di medie imprese, concentrate nel centro nord, che hanno innervato questa espansione delle esportazioni. E' cioè cambiato il capitale italiano. La crisi ha scomposto il circuito di regia del sistema capitalistico e borsistico italiano, centrato su alcune famiglie (Agnelli, Ligresti, Pesenti, Pirelli, ecc.) e su alcuni istituti finanziari (Mediobanca, Generali, Intesa). Nel capitale italiano sono entrate grandi imprese internazionali (per ricordare solo le ultime, la cinese State Grid in Terna, gli algerini di Civital nelle acciaierie di Piombino e forse ArcelorMittal a Taranto, Ethiad in Alitalia, i cinesi di Xinzhu o i giapponesi di Hitachi per Ansaldo STS e Breda) e grandi fondi esteri in borsa (a partire da Blackrock, non solo il più grande fondo d‘investimenti al mondo, ma oggi anche il più grande detentore di capitale nella Borsa di Milano). I processi di integrazione europea, la lunga depressione, i processi di trasformazione degli assetti e degli equilibri del sistema capitalista italiano stanno quindi cambiando composizione e condizioni del mondo del lavoro italiano.
Crisi, organizzazione e coscienza di classe
L'organizzazione e la coscienza di classe nel nostro paese si sono significativamente modificati negli ultimi anni. La crisi ha accelerato mutamenti in corso nella composizione tecnica e politica della classe, la distribuzione tra diversi settori e differenti condizioni. In diversi settori, tra realtà industriali (grandi e medie), piccole imprese e distretti, servizi recentemente integrati nei processi di estrazione del plusvalore (comunicazioni, autostrade, energia, ecc), grande distribuzione e commercio diffuso, servizi sociali che stanno entrando nei processi di estrazione del plusvalore (cooperative sociali; privatizzazione dei servizi educativi, di cura e sanità), pubblico impiego (lavoratori non produttivi che tendono ad esser sottoposti a un organizzazione aziendalistica del lavoro, nel quadro delle politiche di austerità). In diverse condizioni sociali, tra classe operaia centrale (grandi e media aziende sindacalizzate, lavoratori a tempo indeterminato) e diffusa (piccola e media impresa non sindacalizzate, precari industriali); pubblico impiego a tempo indeterminato e determinato (cococo, contratti a tempo, ecc); proletariato precario metropolitano, strutturale (giovani senza prospettive di miglioramento lavorativo, licenziati, ecc) e temporaneo (giovani, studenti, casalinghe, pensionati); disoccupati e sottoccupati di lungo periodo, settori proletari e sottoproletari delle periferie e delle aree escluse dallo sviluppo. Nonostante questa scomposizione, in cui cresce il precariato (oramai stabilmente sopra il 70-80% dei neoassunti), è utile tenere presente il quadro complessivo del mondo del lavoro. In Italia infatti ci sono circa 22,5 milioni di occupati, 3 milioni di disoccupati, 14 milioni di "inattivi": 16,9 milioni sono lavoratori dipendenti e 5,6 milioni indipendenti (partite IVA, professionisti, ecc). 14,5 milioni sono lavoratori e lavoratrici permanenti, a tempo indeterminato (di cui 2,5 milioni a tempo parziale e circa 3,3 milioni lavoratori pubblici) e 2,1 milioni sono i lavoratori dipendenti a termine (600mila quelli a tempo parziale). Due terzi dei lavoratori e delle lavoratrici italiane sono quindi ancora dipendenti subordinati a tempo indeterminato. Una buona parte di questi sono operai o assimilati: nel 2012 erano infatti in tutto 8 milioni circa (CNEL 2013), di cui 3,6 milioni nell'industria e 2 milioni metalmeccanici.
In questo articolato mondo del lavoro, la crisi ha quindi prodotto diversi processi. In primo luogo ha logorato progressivamente, ma sempre più profondamente, l'influenza dei diversi apparati ideologici di stato, la credibilità del sistema e delle sue classi dirigenti. I recenti dati dell'indagine Demos 2014 hanno evidenziato il crollo radicale negli ultimi tre anni della fiducia della popolazione nello Stato, nella Chiesa, nei partiti, e nel sindacato (come istituzione nazionale): persino la fiducia nella figura del Presidente della Repubblica (alta o molto alta per il 77% degli intervistati nel 2010) è crollata oggi intorno al 44%. La crisi ha quindi logorato le istituzioni borghesi, la loro capacità di dare forma ad immaginari e aspettative sociali diffuse, di creare egemonia. Nello stesso tempo si è logorata anche la coscienza di classe. Abbiamo infatti conosciuto in questi anni una progressiva usura delle reti sociali di classe, di quei diversi centri (giornali, riviste, case del popolo, centri sociali, feste popolari, radio locali, aree intellettuali, ecc) che strutturano sia sul piano immaginario e simbolico, sia su quello concreto dei rapporti relazionali, la coscienza di classe di ampi settori sociali e di avanguardia. Questo processo si è intrecciato con i risultati della sinistra politica e con le vicende delle sue principali organizzazioni (PRC, PdCI, SeL, ecc), tutte attraversate da profonde divisioni. Un logoramento che ha investito anche il tessuto diffuso di militanti e delegati sindacali, che tendono generazionalmente a non aver più memoria della precedenti fasi di conquista e resistenza (anni sessanta-ottanta). Una differenza fondamentale con i primi anni ‘90, quando l'autunno dei bulloni o lo sciopero contro il primo governo Berlusconi fecero argine, nonostante tutto, allo sviluppo di movimenti popolari a egemonia reazionaria.
Questi processi hanno attraversato i diversi settori di classe con diverse modalità e intensità. Ad esempio nel proletariato precario metropolitano, in particolare giovanile e professionale, si diffonde una radicale sfiducia che tende però a comporsi con movimenti populisti (dai forconi ai grillini). I settori disoccupati e inoccupati sembrano segnati dall'isolamento sociale e dal logoramento della coesione, che innesca conflitti etnici e popolari, come quelli recenti nelle periferie di grandi città (San Siro, Corvetto e Giambellino a Milano; Corcolle e Torre sapienza a Roma; campi rom a Torino). La classe operaia centrale, il pubblico impiego, il lavoro dipendente subordinato mantiene ancora un discreto livello di sindacalizzazione (33,2%), oltre che un alto livello di partecipazione alle elezioni Rsu (70-90%), pur avendo nel contempo alti livelli di sfiducia nelle burocrazie sindacali.
Lotta di classe e movimenti sociali nella crisi
Le dinamiche della lotta di classe sono state influenzate e attraversate da questi processi. Il dato principale che sembra emergere nella classe operaia centrale, come probabilmente nelle diverse le realtà di lavoro dipendente a tempo indeterminato, è quello di una chiusura delle lotte. Per chiusura intendiamo la tendenza a condurre i conflitti sindacali ripiegati sulla propria immediata realtà, azienda per azienda, stabilimento per stabilimento, posto di lavoro per posto di lavoro. Pensiamo a FIAT, Electrolux, Fincantieri o Thyssen, che sono probabilmente le lotte più conosciute nel paese. Pensiamo non solo alle ultimissime vertenze, ma alle diverse vicende che hanno interessato questi gruppi negli ultimi dieci/quindici anni. In tutte queste realtà sono stati ciclicamente coinvolti diversi stabilimenti, spesso messi in competizione tra loro nella distribuzione dei volumi produttivi, nell'accettazione di diverse condizioni di lavoro (sistemi, pause, ritmi), nel taglio delle linee o nella riduzione di posti di lavoro. Ogni stabilimento ha spesso condotto per suo conto trattative, conflitto (anche radicale) e accordi. Talvolta stabilimento contro stabilimento. Trovando raramente coordinamento, quasi mai una ricomposizione della lotta. I conflitti rimangono quindi spesso isolati, anche quando sono radicali, anche quando sono percepiti come esemplificativi di una condizione generale: i 35 giorni di sciopero prolungato dei lavoratori di Terni non si sono coordinati neanche con le altre grandi acciaierie che stavano subendo processi di ristrutturazione (ILVA di Taranto e Lucchini di Piombino). Al massimo si trova una solidarietà nel proprio territorio (sciopero generale), ma non si tende ad innescare una vertenza ricompositiva, fosse anche solo di impianto riformista e neokeynesiano (ad esempio per la nazionalizzazione dell'acciaio). E' anche il caso dei lavoratori pubblici. Lo sciopero prolungato dei lavoratori e delle lavoratrici del trasporto locale genovese (per la difesa del proprio salario e contro la dismissione delle linee più redditizie), condotto con grande determinazione ed anche con una notevole solidarietà cittadina, oltre ad essersi concluso tra risse e divisioni (l'assemblea finale alla sala del porto, con le polemiche su modalità di voto e risultati), non ha innescato una generalizzazione della lotta (a parte alcuni tentativi in toscana), nonostante la condizione comune a diverse realtà. A Roma, la lotta dei comunali sul salario accessorio e la riorganizzazione proposta dalla Giunta Marino è stata seguita da tutto il settore, ma senza trasformarla in vertenza generale (se non altro, di tutti gli enti locali che potrebbero usare questa esperienza come modello). Nelle ultime settimane del 2014, la lotta delle Provincie, che hanno dovuto affrontate la prima messa in mobilità di massa del pubblico impiego (20mila dipendenti), non ha visto nessuna mobilitazione negli altri settori del pubblico impiego. Se queste esperienze rimangono spesso isolate, nondimeno si ripropongono nel tempo, attirando l'attenzione e talvolta la solidarietà di ampie fasce di popolazione, attivando immaginari collettivi, universi di appartenenza comune, modelli di resistenza.
In questo contesto si sviluppano veri e propri "cicli di lotte": cento fuochi, apparentemente isolati tra loro (divisi nel tempo e nello spazio), ma che esplodono negli stessi settori di classe, a partire da simili condizioni e vertenze, sulle stesse parole d'ordine, con dinamiche ed esiti simili (ad esempio nella logistica a partire dalla manodopera migrante e precaria; nei call center per la stabilizzazione e l'assunzione regolare; nei trasporti pubblici locali contro ristrutturazioni e privatizzazioni). Appunto, dei cicli di lotta, che strutturano generazioni di lavoratori e lavoratrici, e che possono strutturare canali di circolazione delle esperienze, delle forme di organizzazione e di lotta, dei punti di tenuta e di sfondamento delle piattaforme rivendicative.
I movimenti sociali, all'opposto, si sono organizzati e definiti in questi anni su eventi occasionali (un corteo, una legge, una breve stagione politica) o su singole questioni, limitate politicamente e territorialmente (NoTav). Cioè sembrano determinarsi sempre meno come movimenti politici di massa, percorsi di lotta con un profilo generale, una propria autorganizzazione e la capacità di intrecciare conflitti immediati e prospettive di lungo periodo. L'opposizione antiberlusconiana e poi contro l'austerità, ad esempio, non si è mai generalizzata in un movimento di massa, pur costruendo mobilitazioni anche radicali (popolo viola e "senonoraquando", cortei FIOM, corteo studentesco del 14 dicembre 2010, manifestazione del 15 ottobre 2011, ecc). Le mobilitazioni si definiscono in una fluidità e molteplicità di soggetti, convocazioni, identificazioni e rivendicazioni; rappresentandosi attraverso identificativi il più possibile comprensivi e raffigurativi (Onda, Occupy Wall street, Indignados, Senonoraquando, Notav, ecc) e costruendosi a partire da singoli personaggi o strutture con un forte ruolo simbolico (FIOM, attori e intellettuali, comunità locali), che catalizzano l'attenzione attraverso molteplici media (social network, rete internet, televisione, radio, ecc). Movimenti fluidi e molteplici, concentrati su simboli ed eventi, che si sono rivelati spesso estemporanei, senza riuscire a definire piattaforme od obbiettivi che li strutturassero nel tempo. L'Onda studentesca, in questo, è stata prototipica: ogni scuola o gruppo di scuole convocava il proprio corteo sui propri elementi, in assoluta indifferenza con le altre, e il movimento si costruiva nel convergere sotto una sigla, in alcune date, delle diverse mobilitazioni. In questo quadro, l'avanguardia sociale ampia si è già dispersa in molteplici comitati, associazioni, strutture di volontariato e di militanza autonome, sganciandosi dai livelli di sintesi prodotti da partiti, sindacati e organizzazioni politiche. Si è cioè dispersa in una ricca pletora di comitati o luoghi di militanza sociale autocentrati, a caratterizzazione locale o inseriti in reti più ampie, ma con ampi livelli di autonomia e indipendenza (finanziaria, organizzativa, politica).
L'elemento più significativo delle dinamiche di lotta e di movimento che sembra emergere in questi anni, quindi, è il profondo scollamento tra lotte nel territorio e movimenti di massa. I "cicli di lotta", che si collocano concettualmente tra questi due momenti, spesso e non casualmente non sono colti nel loro sviluppo, né dai protagonisti né dagli osservatori.
Fare sindacato di classe nella crisi
In questo quadro dobbiamo tracciare una linea di intervento di un'area classista e anticapitalista. In un fase di crescita economica, come abbiamo visto, è teoricamente possibile che crescano sia i profitti sia i salari. Nella fasi di sviluppo capitalistico, cioè, si determinano delle condizioni oggettive che facilitano un compromesso capitale lavoro, e quindi l'azione economica del sindacato. In una fase di crisi o stagnazione economica, invece, la contrapposizione tra salari e profitti diventa diretta: la necessità di mantenere i margini determina una pressione a comprimere il salario. In una fase come questa l'azione del sindacato è quindi più complessa, in quanto deve contrastare una lotta di classe che è scatenata dall'avversario. L'offensiva, nel pieno della crisi, è complessiva: sull'occupazione innanzitutto, per la distruzione di capitale nelle recessioni e nelle depressioni; sul salario diretto e su quello indiretto (per aumentare la quota di plusvalore trattenuto dal capitale), sull'organizzazione del lavoro (aumento del tempo o dell'intensità di lavoro), sul salario sociale (riduzione della tassazione generale e quindi dei servizi pubblici).
Nell'attuale fase la maggioranza della CGIL ha reagito con gli strumenti tradizionali della sua impostazione, subordinandosi alle compatibilità del sistema produttivo. Ha cioè riproposto una linea che intende contrattare l'aumento dell'estrazione di plusvalore e la diminuzione del salario complessivo, per difendere le condizioni di valorizzazione di un capitale. Dimostrando questa responsabilità, si propone di mantenere un ruolo negoziale e aspettare il secondo tempo della ripresa per riconquistare spazi di crescita salariale. In questo quadro, la concertazione governativa è cruciale, in quanto gli accordi con il capitale devono esser garantiti dall'insieme delle politiche macroeconomiche (inflazione, investimenti, normative sul mercato del lavoro). E conseguentemente, in queste fasi di crisi, questa strategia assegna una valenza maggiore al livello confederale centrale, sia sul piano contrattuale (definizioni quadro delle linee di azione e dei limiti), sia su quello organizzativo. Lo difficoltà di questa linea emergono con l'acutizzarsi della lunga depressione, che comporta un progressivo scivolamento delle condizioni di tenuta ed un costante rinvio della ripresa economica. Questo scivolamento si intreccia con le caratteristiche dell'organizzazione, che negli ultimi decenni (riforma dei primi anni ottanta) si è strutturata prioritariamente a livello categoriale. Ogni categoria infatti ha sviluppato una propria autonoma linea contrattuale, sulla base delle proprie condizioni di tenuta: i chimici hanno aperto alle deroghe contrattuali, il commercio sulla bilateralità, i bancari sui salari di ingresso, i postali sulla triennalizzazione dei contratti, ecc. Con il precipitare della crisi, i diversi punti di tenuta sono stati riuniti dal padronato in un arretramento complessivo delle condizioni di lavoro. Cofferati, Epifani e Camusso hanno cercato più volte il grande accordo di fase con Confindustria, ma ogni volta queste intese sono tramontate nello spazio di un mattino, sino all'arrivo prima di Marchionne e poi del governo di Renzi.
L'insieme delle correnti critiche, a partire dal gruppo dirigente "sabbatiniano" e a quella che era Lavorosocietà, si muovono con una diversa prospettiva, sostanzialmente comune tra loro. Criticano per l'appunto la linea della maggioranza, in quanto la "politica dei due tempi" (considerare nella crisi le compatibilità dell'apparato produttivo, per recuperare con la ripresa) indebolisce troppo sia le condizioni di lavoro, sia le organizzazioni sindacali, a partire dai grandi accordi dell'ultimo ventennio: eliminazione scala mobile, sistema contrattuale del ‘93 con priorità alla produttività, riforma delle pensioni del '95, spostamento equilibri dei contratti sul secondo livello. Per questo, individuano l'obbiettivo di fase nella riconquista sul piano generale delle condizioni per la crescita: interpretando le crisi principalmente come conseguenza delle politiche neoliberiste (espansione finanziaria ipertrofica e riduzione della domanda aggregata), propongono una ripresa della conflittualità come passaggio per ricostruire le condizioni di un'alleanza capitale-lavoro. Condizioni che, in questa prospettiva, possono oggi determinarsi solo attraverso una politica neokeynesiana nel quadro di un'integrazione continentale (federalismo europeo).
Per una componente classista e anticapitalista, la strategia deve differenziarsi da entrambe queste linee. Il sistema capitalistico tende inevitabilmente alla crisi ed alla depressione. Non esiste una tendenza prevalente alla crescita, in grado di contrastare le crisi cicliche e sulla quale contare per conquistare progressivamente margini di miglioramento del lavoro. Le controtendenze, che possono prevalere ciclicamente o spazialmente (in alcuni aree del mondo), sono infatti destinate ad esser superate dalla caduta tendenziale del saggio di profitto. E quindi non esiste nemmeno la possibilità di costruire sistemi di regolazione e redistribuzione stabili, in grado di cancellare o di posporre indefinitamente le crisi. Compito del sindacato è quindi difendere gli interessi di classe in una relazione antagonistica con il capitale che è dettata dai ritmi del ciclo capitalistico. Oggi è il tempo della depressione e della crisi, particolarmente nel polo europeo. Quindi una fase di diretta contrapposizione tra capitale e lavoro, di conflitto e di "guerra di movimento", stante la continua distruzione di capitale che la crisi determina: difficile mantenere stabilmente qualunque conquista, qualunque accordo, qualunque resistenza in un periodo segnato da grandi distruzioni di capacità produttive, di occupazione, di sistemi istituzionali di regolazione sociale. In questo contesto instabile ed incerto, possiamo tracciare alcuni assi di intervento.
1. Difesa del salario diretto. In questi anni di crisi, con i contratti nazionali spesso bloccati o, quando rinnovati, portatori di peggioramenti economici e normativi, tendiamo a tralasciare la centralità di questo terreno nello sviluppo delle lotte. Sbagliamo. Proprio perché costretto dalla crisi, è il capitale che individua questo come il terreno principale su cui conduce la sua offensiva. In linea generale, il suo obbiettivo non è tanto quello di una diminuzione generalizzata, ma soprattutto quello di una flessibilizzazione del salario. Aumentare cioè la quota variabile del salario, in linea generale sulla base delle condizioni specifiche di valorizzazione dell'impresa (redditività, ordinativi, ciclo settoriale), in linea particolare spesso introducendo indici discrezionali o competitivi (che aumentano anche il controllo della forza lavoro, dalla valutazione della prestazione a forme più o meno implicite di cottimo). Lavoratori e lavoratrici sono attenti alla definizione ed all'applicazione di questi sistemi di regolazione del salario, che spesso determinano conflittualità, collettiva e dispiegata o anche individuale e implicita (aggiramento, elusione o contrasto delle prassi previste). Nei diversi settori, è quindi importante elaborare linee di difesa delle condizioni salariali, individuando vertenze di "generalizzazione" del salario (riduzione delle quote variabili), criteri oggettivi e verificabili nell'assegnazione del salario accessorio, combattendo meccanismi competitivi tra lavoratori o gruppi di lavoratori.
2. Organizzazione del lavoro. Un aspetto altrettanto importante è l'organizzazione del lavoro. L'espansione dell'estrazione di plusvalore, a parità di salario, può esser ottenuto o aumentando gli orari (plusvalore assoluto) o intensificando il lavoro (plusvalore relativo). Particolarmente nelle imprese che stanno utilizzando la crisi per espandersi, e che possono permettersi di mantenere i livelli salariali, la pressione della crisi interviene sulla forza lavoro in questo ambito. Come, ovviamente, anche nelle aziende in crisi che cercando di recuperare così margini di valorizzazione. Nel quadro del processo avviato con le deroghe al contratto nazionale, questo è diventato il terreno privilegiato dei contratti aziendali, e della competizione diretta tra stabilimenti degli stessi gruppi. Per questo è importante farne terreno di analisi, elaborazione, resistenza.
3. Salario sociale. In Italia esiste ancora un Sistema Sanitario pubblico e universale, nonostante i processi di aziendalizzazione e regionalizzazione dell'ultimo ventennio. E' una componente centrale del salario nel nostro paese: da una parte perché evita la necessità di uno specifico risparmio (o la rinuncia a mantenersi in salute), dall'altra perché toglie ai datori di lavoro un'arma contrattuale rilevante (copertura sanitaria aziendale). Il presidio di questa compente del salario, di fronte alla crisi dei bilanci pubblici, è quindi essenziale. In particolare considerate le politiche di detassazione in questa fase di crisi. Il peso della tassazione in Italia è sostanzialmente caricato sul lavoro: nel 2013, su circa 470 miliardi di entrate tributarie, 170 mdl provenivano da Irpef e di questi 136 mld dal lavoro dipendente; dalle imprese provenivano invece 32 mld da IRAP e 36 mld da IRES. Cioè il capitale contribuisce per meno della metà di quanto contribuisce il lavoro. La detassazione si è però concentrata in questi anni sulle imprese, per sostenerne i profitti e la competitività. Per questo è importante costruire una battaglia contro la detassazione del capitale, per una riduzione della tassazione sui lavoratori dipendenti ed un aumento sulla rendita, nel quadro di una difesa del salario sociale complessivo. Il governo Renzi, tentativo di svolta bonapartista che si appoggia su uno sfondamento padronale.
Il consolidamento nel 2014 del governo Renzi ha aperto una fase diversa della lotta di classe. Questo governo si propone infatti di realizzare una svolta bonapartista, per imporre una stabilizzazione borghese della crisi politica e istituzionale del paese. Nella scorsa primavera, grazie al successo elettorale, Renzi ha riorganizzato il principale partito borghese attorno al suo comando, costruendo un rapporto diretto con l'opinione pubblica quale leva della sua forza, scavalcando così le mediazioni con le rappresentanze organizzate (partiti, sindacati e Confindustria). In questo quadro, ha perseguito un progetto di riforma elettorale e istituzionale reazionario, una "terza repubblica" con un parlamento selezionato e un ulteriore rafforzamento della Presidenza del Consiglio. Ha quindi avviato una fase di controriforme continue, a colpi di decreti e leggi delega, sul pubblico impiego, il precariato, la scuola, con l'obbiettivo di destrutturare i contratti di lavoro, ridefinire i rapporti di forza dei sindacati, indebolire lavoratori e lavoratrici davanti al capitale. Un progetto strettamente relazionato con i nuovi assetti del capitalismo italiano, candidandosi ad accompagnare l'entrata dei soggetti internazionali nel mercato azionario e nel controllo di importanti imprese italiane, oltre che la struttura delle medie imprese esportatrici. Questo tentativo ha però incontrato alcuni problemi. La riforma istituzionale ha trovato inaspettate resistenze nella palude parlamentare. I dati economici estivi hanno confermato la depressione italiana, smontando le narrative della svolta renziana. Infine si è rivelato complesso cambiare asse ed equilibri delle politiche economiche europee per conquistare i margini di bilancio con cui stabilizzare la propria ascesa (un bonapartismo senza risorse, infatti, è instabile). In questo quadro, nel corso di settembre è maturato un significativo adattamento della linea di governo. E' emersa cioè l'esigenza di conquistare il sostegno della struttura di potere profonda del paese. Nel momento in cui sono iniziate le prime manovre di palazzo (esemplificativo l'editoriale di De Bortoli sul Corriere della sera del 24 settembre), Renzi si è impegnato in diversi incontri delle associazioni industriali territoriali ("i nuovi eroi"), garantendo l'approvazione nello sbloccaItalia e nella legge di stabilità di politiche mai così favorevoli a diversi settori del capitale. Qui si è collocato il Job Act, che ha garantito il controllo sull'organizzazione del lavoro (demansionamento, videosorveglianza, licenziabilità) e ha aperto la prospettiva di un nuovo sistema di contrattazione. Una linea che si è concretizzata nello scontro con i sindacati, trasformando questo provvedimento in una cesura ideale, politica, simbolica con il mondo del lavoro e le radici laburiste del PD.
Difficoltà di un movimento di massa contro Renzi
Contro questo nuovo passo, si è reagito in ordine sparso, con molteplici mobilitazioni: 17.9 sciopero Unicobas; 27.9 corteo per la Palestina; 4.10 manifestazione SeL; 10.10 sciopero di studenti, autoconvocati, Cub e Cobas scuola; 16.10 giornata di mobilitazione dell'area antagonista; 24.10 sciopero generale USB; 25.10 corteo CGIL; 8.11 corteo CGIL CISL UIL del pubblico impiego; 14.11 sciopero "sociale" e FIOM alta Italia; 21.11 sciopero e corteo FIOM a Napoli (centro e sud), 29.11 manifestazione Tsipras. L'autunno è dominato dalla scomposizione tra diversi percorsi, più che da una tendenza all'unità delle lotte. Di più, in questo contesto si è rotto il fronte dei sindacati di base, con la decisione USB di convocare lo sciopero del 24 ottobre, ed il 14 novembre ha assunto la semplice valenza di uno "sciopero sociale" che si è intrecciato con la Fiom. Nel contempo, il movimento della scuola, che poteva ricoprire un ruolo generale di opposizione al governo, non è partito. Non che sia mancato il dissenso contro il Piano scuola. Ma da una parte è prevalsa l'attesa dei provvedimenti, anche nei suoi possibili risvolti positivi (150mila assunzioni), dall'altra hanno pesato le titubanze sindacali, della FLC in primo luogo (che non ha voluto anticipare la CGIL, rompere il rapporto con Cisl e Uil, contrapporsi a diversi elementi del Piano scuola). Il 10 ottobre lo sciopero degli autoconvocati è stato sostanzialmente limitato a Roma. I cortei studenteschi hanno coinvolto poche migliaia di persone, anche nelle grandi città (Roma, Milano, Napoli). Le autogestioni e le occupazioni non sono partite, se non in sporadici episodi.
L'apertura di un conflitto sul lavoro ha però modificato il quadro. Con l'avanzare dell'autunno, CGIL e FIOM hanno reagito, risolvendo più o meno temporaneamente le loro divergenze. Hanno reagito non solo sul piano della rappresentazione (dichiarazioni puntuali contro Renzi, "cinegiornale" web): hanno avviato una mobilitazione di massa con il corteo del 25 ottobre, con gli scioperi e i cortei FIOM di Milano e Napoli, infine con lo sciopero generale. Una mobilitazione che si è parzialmente diffusa con scioperi aziendali e territoriali, come nelle contestazioni a Renzi (a partire dalla prima, in Valle Seriana, organizzata dalle fabbriche in cui siamo presenti come OpposizioneCGIL), ora sostenute anche dalla burocrazia sindacale.
E' emersa un'opposizione di massa, organizzata da un soggetto sindacale: un'opposizione quindi centrata su una dimensione di classe. Questo il risultato della scelta della CGIL, che va oltre le sue intenzioni e anche oltre la sua reale capacità di mobilitazione. Oltre le sue intenzioni, perché permane la linea strategica di accordo con governo e produttori: la scelta del conflitto è temporanea, incerta nei tempi, nelle forme, nelle parole d'ordine. Oltre la sua capacità di mobilitazione, perché ad oggi sono coinvolti settori limitati: al corteo del 25 ottobre hanno partecipato realmente 150/200mila persone (soprattutto quadri, dirigenti e attivisti diffusi della CGIL), agli scioperi ha sinora aderito solo la parte più cosciente della classe, nelle contestazioni sul territorio manifestano in prevalenza militanti politici e sindacali. Nella CGIL, proseguire e organizzare il movimento di lotta contro il governo Renzi.
Dopo lo sciopero generale del 12 dicembre, il gruppo dirigente della CGIL ha evidenziato tutti i suoi limiti. Innanzitutto ha bloccato ogni prospettiva di lotta (Direttivo del 17 dicembre), rifiutandosi di indicare un qualunque terreno di sviluppo della mobilitazione. Nella speranza di una cambio di strategia renziana, tentati dalla significativa riduzione dei tagli ai patronati (da 150 a 35 milioni di euro, con diversi criteri di redistribuzione che potrebbero anche portare ad un leggero aumento per l'INCA), Camusso e Landini hanno preferito attendere i decreti sul JobAct, la conclusione della vertenza sulle Provincie e il confronto sul pubblico impiego. Una responsabilità grave, perché ha contribuito ad interrompere un ciclo di mobilitazioni, impedendo di cristallizzare nella coscienza di milioni di lavoratori e lavoratrici quella rottura con il governo che era iniziata a maturare proprio con la scelta di ottobre della CGIL. E quindi rischiando di farla involvere, nel quadro dell'oggettiva sconfitta sul JobAct. Anzi, hanno permesso al governo di rilanciare l'offensiva nelle settimane successive, dall'inserimento dei licenziamenti collettivi alla prospettiva di un'estensione al pubblico impiego, nel quadro di una rinnovata applicazione della famigerata Brunetta.
L'obbiettivo principale che dovremmo porci nei prossimi mesi dovrebbe esser quindi quello di proseguire il conflitto con il governo, costruendo ed allargando un'opposizione di massa a Renzi ed alle sue politiche. In una dinamica che ha visto sinora marginalizzati i movimenti autorganizzati, rimane purtroppo centrale il ruolo che la CGIL gioca nella ripresa delle mobilitazioni. Per questo è importante anche il nostro ruolo, nel tentativo di riavviare le lotte iniziate nell'autunno, riprendere e approfondire l'iniziativa timidamente avanzata il 25 ottobre, negli scioperi FIOM di novembre, il 12 dicembre. Per questo sarebbe utile intervenire nel dibattito dell'organizzazione, nei direttivi, negli organismi di categoria e negli attivi, in particolare di fronte all'approfondirsi dell'offensiva padronale renziana. Ma è altrettanto importante sviluppare ogni possibile contrappeso, dentro questa lotta, alla direzione burocratica di CGIL e FIOM. Per entrambe queste ragioni (sostenere prospettive di una lotta, costruire possibili contrappesi), sarebbe importante lanciare una campagna per assemblee di delegati/e eletti nei luoghi di lavoro, per definire una piattaforma che leghi la rivendicazione del ritiro delle misure governative a un piano più generale di obiettivi rivendicativi.
Innanzitutto delineare una diversa prospettiva di lotta. Le stesse mobilitazioni d'autunno della CGIL, come quelle di altri sindacati di base (vedi sciopero USB) si sono infatti caratterizzati principalmente, se non esclusivamente, come scioperi "di protesta" e di posizionamento politico nei confronti del governo. Non si proponevano cioè né sul piano particolare obbiettivi vertenziali definiti, né sul piano generale una caduta del governo. La prospettiva che dovremmo assumere è invece esattamente rovesciata. Costruire una piattaforma generale in grado di ricomporre le lotte, indicando alcuni precisi elementi vertenziali che si intende porre al centro dell'iniziativa. Una piattaforma che, proprio per comporre diversi settori, dovrebbe esser costruita e legittimata dai luoghi di lavoro, con l'elezione di delegati/e che la sostengano. Una mobilitazione che quindi si costruisca attraverso la composizione di una vertenza generale, in grado di porre l'obbiettivo di massa della cacciata del governo Renzi, per conquistare gli stessi spazi di realizzazione della propria piattaforma. In secondo luogo, costruire un terreno per sviluppare un processo di autorganizzazione delle lotte. Per lo sviluppo della lotta di classe, infatti, l'elemento determinante non è mai la vittoria del singolo conflitto, ma come questo è condotto. In una fase segnata dall'arretramento della coscienza di classe e delle avanguardie di massa, dal ruolo delle burocrazie sindacali, dalla pretesa di autosufficienza di molti sindacati di base, tale proposta di organizzazione democratica delle lotte porterebbe anche a sviluppare due interventi: da una parte la costruzione di comitati di lotta, che possano raccogliere delegati e avanguardie di ogni appartenenza sindacale e che possano coordinarsi sul territorio; dall'altra la costruzione di assemblee e coordinamenti di RSU, cioè delle rappresentanze sindacali elette dai lavoratori nel quadro degli vigenti accordi burocratici, che possono però favorire la convergenza di diverse appartenenze sindacali, la generalizzazione dai propri settori di appartenenza, e infine innescare uno sganciamento potenziale dalle direzioni burocratiche.
Infine, un ultimo terreno di riflessione. La scelta autunnale di Renzi, la rottura con le radici storiche del PD nel mondo del lavoro, confermata dal rilancio della sua offensiva dopo il 12 dicembre, sta progressivamente convincendo il gruppo dirigente della CGIL a prendere atto di questa stessa rottura. Da una parte rompendo a sua volta i legami impliciti ma solidissimi che ha mantenuto con il maggior partito del centrosinistra, dall'altra aprendo una revisione di quel rapporto con la politica nel suo complesso che si è definito con l'89/'93 (scioglimento del PCI e del PSI). Una revisione che potrebbe anche rilanciare le prefigurazioni dell'ultimo Sabbatini, che implicherebbero una svolta storica con una CGIL direttamente promotrice (o diretta sostenitrice) della costituzione di un partito laburista/del lavoro. In questo quadro, sarebbe utile aprire una discussione anche nella nostra area su come affrontare questa fase, sostenendo la rottura con il PD, ma anche prendendo atto del complesso dibattito che si sta aprendo.
Per continuare a sviluppare un'area plurale, politicamente e sindacalmente, ma che secondo noi potrebbe esser raccolta intorno ad un elemento strategico di fondo: la ricostruzione, appunto, di un sindacato anticapitalista di classe.
11 gennaio 2015
[tratto da http://sindacatounaltracosa.org]