Cari compagni,
se la rivendicazione della riduzione della giornata lavorativa ci trova d'accordo, non possiamo sottoscrivere la parola d'ordine dell'esproprio/nazionalizzazione delle imprese che chiudono. I lavoratori non devono farsi carico dei destini economici delle aziende in crisi e tantomeno dell'economia nazionale. Continuando a lottare ognuno nel proprio posto di lavoro non andremo da nessuna parte. Dobbiamo cominciare a mettere in campo la nostra forza, l'unico linguaggio che i nostri avversari capiscono. Sembra immensamente lontano il tempo in cui gli operai scendevano in piazza organizzando manifestazioni contro il lavoro, quando cioè pretendevano una forte riduzione dell'orario e un salario decente per i disoccupati con le loro famiglie; quando avevano il coraggio di sfidare l'avversario sul suo terreno, quello preparato dallo sviluppo generale della produttività.
Alla riduzione della giornata lavorativa affianchiamo quindi un'altra rivendicazione, quella del salario ai disoccupati: le due rivendicazioni non possono essere separate.
Saluti di lotta. - Chicago86 -
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MANIFESTO DI LOTTA
"Redistribuire il lavoro che c'è, espropriare le imprese che chiudono"
Due punti per uscire dalla difesa della miseria dell'esistente e lottare contro un futuro senza prospettive
Nonostante le centinaia di miliardi di euro che sono stati prelevati dalle tasche dei lavoratori delle loro famiglie per essere regalati alle banche dal governo Monti attraverso le sue controriforme, la crisi continua a mordere e sempre gli stessi settori sociali. E nel prossimo futuro andrà ancora peggio visto il pareggio di bilancio introdotto in Costituzione con l'applicazione, per volere della UE, del Fiscal Compact che imporrà a qualsiasi governo avremo tagli alla spesa per circa 50 miliardi di euro per ogni anno nei prossimi venti anni almeno.
Questo vuol dire che non sono previste risorse né per investimenti e progressivamente nemmeno per gli ammortizzatori sociali.
Chi perde il lavoro o andrà in cassintegrazione perché la sua azienda è in crisi, chiude o delocalizza ha davanti a sé unicamente un futuro di disoccupazione e miseria in solitudine.
Parliamo di centinaia di migliaia di posti di lavoro a rischio. Solo sui tavoli aperti al ministero dello sviluppo economico sono coinvolti 285.800 lavoratori e lavoratrici, dei quali 74.605 sono stati dichiarati già da oggi in esubero. Per non parlare dell'impatto sull'indotto che moltiplica per due o tre i numeri. Da questi numeri sono escluse le grandi aziende gestite direttamente dal ministero. Un milione di posti di lavoro, tra mobilità e cassintegrazione, sono a rischio e altrettanti posti precari sono scomparsi dall'affacciarsi della crisi.
Questi numeri fanno capire chi sta pagando tutte le conseguenze della crisi e che le azioni messe in campo dal governo, spesso avallate passivamente dalle OOSS, non fanno altro che peggiorarla. Se continuiamo ad accettare il principio che dobbiamo pagare noi i costi della crisi dei padroni (che siano essi industriali, banchieri o speculatori) ci scaviamo la fossa con le nostre stesse mani.
Gli ammortizzatori sociali ormai sono solo il viatico per la mobilità e i licenziamenti, e l'azione sindacale ormai è rivolta solo al loro utilizzo.
Mentre i governi impongono tagli e controriforme per mantenere alti i profitti di banche e imprese, gli unici ad andare veramente in "default" in questo paese, col ricatto della crisi e del debito, sono i lavoratori e le lavoratrici dipendenti, i precari, i cassintegrati ed i disoccupati.
Le nostre singole vertenze contro i licenziamenti e contro la precarietà rischiano di sbattere contro il muro delle controparti (aziende e governo) col ricatto della chiusura o il contentino temporaneo di qualche ammortizzatore per fiaccare la nostra resistenza prima di perdere definitivamente il posto di lavoro.
Proponiamo che queste vertenze e lotte, che ciascuno conduce autonomamente con gli strumenti che ritiene più adeguati, siano affiancate dalla rivendicazione da parte di tutte le lavoratrici ed i lavoratori in lotta, dipendenti o precari, di due punti generali:
1. La riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario e senza aumenti di produttività.
2. L'esproprio/nazionalizzazione sotto controllo collettivo delle aziende in crisi e che de localizzano.
Non siamo più disponibili ad accettare che le grandi e medie imprese, sostenute in ogni modo con i nostri soldi, che hanno devastato interi territori e la salute di milioni di persone, per accrescere comunque i loro profitti chiudano qui e le vadano a riaprire ovunque gli convenga di più gettando per la strada centinaia di migliaia di lavoratori!
L'articolo 43 della Costituzione già recita "A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale".
Sappiamo bene non basta una legge ma sosteniamo che è possibile praticare l'esproprio e l'autogestione per "comunità di lavoratori" delle aziende che chiudono o delocalizzano salvo pretendere che, visti tutti gli sgravi e incentivi pubblici ricevuti, non ricevano ulteriori indennizzi o al massimo un indennizzo simbolico di un euro!
Inoltre l'introduzione di tecnologie e l'aumento dei ritmi di lavoro hanno aumentato a dismisura la velocità di produzione di beni e di servizi senza che questo abbia provocato una liberazione della nostra vita da una parte del tempo di lavoro per noi ma ha significato solo l'incremento di profitti per le aziende. Gli ammortizzatori e l'aumento della produttività (ormai, al pari della precarietà, introdotti anche nel pubblico impiego e nella scuola) sono solo l'anticamera della disoccupazione e quindi rivendichiamo, azienda per azienda, categoria per categoria, la riduzione d'orario a parità di salario e senza aumenti produttivi come l'unica possibilità per redistribuire intanto il lavoro che c'è e far si che non siamo noi a pagare, ancora una volta, i costi della crisi!
Noi abbiamo già pagato col nostro lavoro flessibile, precario, insicuro e malpagato...
E' ora che la crisi la paghino le banche, le imprese e gli speculatori!