L'intreccio tra le condizioni dei lavoratori occidentali licenziati dai magazzini e i data workers sottopagati nel cosiddetto terzo mondo
Nuova ondata di licenziamenti da parte delle big tech: Amazon licenzierà 14 mila lavoratori e li sostituirà con robot, Meta taglierà 600 posti di lavoro nel reparto IA e Siemens 5.600, Microsoft ha licenziato 15.000 dipendenti nel 2025. La lista è ancora lunga e in continuo aggiornamento.
I lavoratori in alcuni casi hanno manifestato contro lo sviluppo tecnologico, mentre nei casi più disperati hanno dato vita a comportamenti autolesionistici.
Magazzini e uffici assomigliano sempre più ad esseri viventi, ne copiano le caratteristiche e interagiscono con l'ambiente per mezzo di feedback continui che ne ottimizzano la struttura. I lavoratori sono subordinati ad attività esterne on-demand, tramite app che mettono in contatto, in tempo reale, chi offre un servizio (trasporto, consegna, assistenza domestica, ecc.) con chi lo richiede.
Non solo questi gig workers, ma anche gli utenti connessi delle piattaforme forniscono feedback continui alle aziende hi tech, che predicono i comportamenti di consumo e orientano la produzione di merci e servizi verso le preferenze riscontrate. Tutta questa mole di dati ha ancora bisogno di lavoro vivo per classificare immagini, trascrivere testi, correggere errori, etichettare video, valutare risposte di chatbot o riconoscere oggetti nelle foto. Sono compiti troppo semplici per essere affidati a professionisti, ma troppo complessi per essere automatizzati del tutto, per cui vengono frammentati in micro-attività digitali precarie e globalizzate, pagate pochi centesimi e affidate ad un esercito di lavoratori digitali "invisibili", principalmente nei paesi del cosiddetto terzo mondo: ad esempio, in Madagascar vengono addestrati gli algoritmi di machine learning, mentre nelle Filippine, in Kenya ed in Nigeria vengono filtrati immagini e video violenti, pornografici o traumatici.
I più richiesti sono i moderatori di contenuti e i click farms, gruppi di persone che generano artificialmente like, follower e visualizzazioni per far crescere la popolarità di marchi, influencer e campagne pubblicitarie. Piattaforme e algoritmi spezzano le attività in compiti ripetitivi e digitalmente misurabili, tramite fenomeni come la taskification (trasformare il lavoro in compiti) e la datafication (trasformarlo in dati). Ogni lavoratore è valutato da punteggi e feedback, innescando spesso delle spietate competizioni.
Solo in rari casi questi lavoratori si sono organizzati per le lotte immediate, mentre quasi sempre sono separati fisicamente dai colleghi e connessi unicamente alle piattaforme. Così, se in Occidente i consumi sono messi a rischio dalla crescente disoccupazione tecnologica, i moderatori, i click farmers e i data labelers dei paesi "periferici" svolgono compiti faticosi e traumatici, per mantenere le piattaforme occidentali sicure ed attraenti. Sono temi all'ordine del giorno anche per un sindacato come la CGIL che lo scorso settembre ha organizzato un convegno a Bologna, L'azione sindacale nell'epoca del lavoro digitale e dell'intelligenza artificiale, dedicato al "confronto tra il mondo della tecnologia, quello del lavoro e il sindacalismo, con l'obiettivo di condividere esperienze per creare nuove forme di solidarietà internazionale."





