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Ex IlvaSe lo Stato e i capitalisti tendono a dismettere la produzione di acciaio, non ha senso battersi perchè le fabbriche rimangano aperte

L'agitazione operaia, che ha portato a scioperi, presidi e blocchi del traffico in varie città italiane, è la risposta alla presentazione del piano denominato "ciclo corto" presentato dal governo per l'ex Ilva, che prevedeva una riduzione della produzione e un massiccio ricorso alla cassa integrazione per migliaia di lavoratori. I sindacati hanno detto che, in assenza di un piano industriale solido, si sta di fatto puntando alla chiusura degli stabilimenti Acciaierie d'Italia S.p.A. in amministrazione straordinaria.

Attualmente l'ex Ilva lavora a ritmi ridotti: su 8mila dipendenti complessivi ne sono in cassa integrazione circa la metà.

I metalmeccanici sono scesi in strada al grido di "lavoro, lavoro!", chiedendo il rilancio della siderurgia italiana, che non sarebbe adeguatamente tutelata dal governo: i bonzi sindacali riescono ancora ad incanalare la rabbia degli operai all'interno dei binari delle compatibilità capitalistiche, "suggerendo" ai lavoratori slogan che appartengono alla classe nemica. La terribile parola d'ordine del "diritto al lavoro" non è che la triste liturgia di una Religione del Lavoro, quindi del Capitale. Essa risulta particolarmente fuorviante in un'epoca in cui lo stesso capitalismo sostituisce sempre più lavoratori con sistemi di macchine. L'acciaio è una merce prodotta in un mercato internazionale (i maggiori produttori sono Cina e India) e vince chi lo produce a prezzi inferiori, gli altri sono destinati a chiudere. Vogliamo quindi farci sfruttare di più per essere più competitivi? Se il capitalismo offre solo miseria e guerra, ad esso i lavoratori dovrebbero contrapporre la difesa intransigente dei loro interessi, cominciando con la riscoperta di parole d'ordine come la riduzione della giornata lavorativa e il salario ai disoccupati.

Nel corso della mobilitazione, a Novi Ligure tecnici e operai hanno improvvisato cortei, così come a Racconigi, un'altra località dove è presente uno stabilimento ex Ilva. Diffuse proteste a Taranto e Genova, dove i lavoratori hanno occupato le fabbriche e le reti infrastrutturali nelle vicinanze. Giovedì 4 dicembre un corteo è partito dal presidio di Cornigliano diretto verso la Prefettura, nel centro di Genova, dove le ruspe guidate dai lavoratori hanno divelto le griglie posizionate dalla polizia. In piazza sono scesi i lavoratori delle principali fabbriche genovesi – Ansaldo Energia, Piaggio Aerospace, Fincantieri – insieme ad altre realtà presenti per esprimere la propria solidarietà.

Nell'incontro del 5 dicembre a Roma, al Mimit, il presidente della Regione Liguria e la sindaca di Genova hanno ottenuto dal ministro Adolfo Urso "garanzie" sulla rimessa in funzione della linea dello zincato a Genova bilanciata con la produzione della banda stagnata. Il ministro ha dichiarato che non c'è alcun piano di chiusura dell'impianto e che le manutenzioni avviate a Taranto sono orientate a ripristinare entro marzo una capacità produttiva di 4 milioni di tonnellate. Notizie che hanno portato i sindacati a interrompere la protesta dopo giorni di sciopero e occupazioni.

Il fatto che le organizzazioni sindacali si interessino, d'intesa con il governo, del rifornimento delle materie prime e dello smercio dei prodotti, che adottino la logica capitalistica della produttività e dell'interesse nazionale, non è certo una novità. Burocrati sindacali e istituzioni sono riusciti a far rientrare la lotta, ma è sicuro che essa riesploderà, in Acciaierie d'Italia come altrove. Ma se non si forma una rete operaia che si pone contro la collaborazione politica ed economica tra classi avverse, nel territorio come nell'azienda, ai lavoratori non rimane che sperare nella tutela di un'occupazione che nei fatti sta già sparendo.