200 milioni di precari tra industria e servizi, ma soprattutto giovani che rifiutano il mito del lavoro
In Cina sta emergendo la più grande concentrazione al mondo di lavoratori precari, composta da circa 200 milioni di gig-workers (alle prese con lavoretti ottenibili online), che rappresentano un quarto della forza lavoro totale del Paese.
A differenza dell'Occidente, la gig-economy cinese non riguarda solo il mondo dei servizi, ma anche quello manifatturiero. Si stima che 40 milioni di lavoratori siano impiegati in fabbriche con contratti giornalieri, con molti stabilimenti industriali che assumono fino all'80% degli operai tramite piattaforme digitali. Un caso eclatante è la fabbrica della Foxconn a Zhengzhou, dove si produce l'iPhone, in cui oltre la metà dei 200.000 lavoratori stagionali sarebbero dispatch workers, ovvero lavoratori reclutati tramite intermediari ma non pienamente assunti, quindi senza contributi pensionistici, assistenza sanitaria ed altre tutele. Altri 84 milioni di precari sono impiegati nelle emerging employment (occupazioni emergenti) come riders, livestreamer ed operatori delle piattaforme digitali. Anche questi lavoratori non hanno contratti standard, non sono coperti da assicurazioni e spesso faticano a far riconoscere il rapporto di lavoro con le piattaforme digitali, al punto che tra 2020 e il 2024 i tribunali cinesi hanno gestito circa 420.000 cause civili riguardanti lavoratori della gig-economy, tanto da spingere il presidente della corte superiore di Shanghai a chiedere un aggiornamento delle norme sui lavori "flessibili".
Un recente rapporto congiunto dell'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e dell'ILO (International Labour Organization) lancia l'allarme sull'aumento dei decessi causati dal superlavoro: "Nel 2016 il lavoro di 55 o più ore settimanali ha provocato 745.194 decessi, rispetto ai circa 590.000 nel 2000. Di questi decessi, 398.441 sono attribuibili a ictus e 346.753 a malattie cardiache. Ciò assegna a coloro che lavorano tanto un rischio stimato del 35% in più di ictus e del 17% in più di malattie cardiache rispetto alle persone che lavorano da trentacinque a quaranta ore alla settimana. Gli uomini e gli adulti di mezza età sono particolarmente esposti e il problema è più diffuso nel sud-est asiatico."
Il lavoro, in un'epoca in cui le aziende spremono i lavoratori come limoni per stare al passo con la concorrenza internazionale, uccide. E se non ammazza in fabbrica o nei cantieri, fa ammalare, deprimere, e provoca stress. In questo mare di sofferenza causato da quella "strana follia" che si è impossessata di uomini e donne della società moderna, l'amore per il lavoro (cit. Paul Lafargue, Il diritto all'ozio), qualcuno comincia a chiamarsi fuori.
Il 19 dicembre scorso migliaia di lavoratori a termine hanno organizzato una protesta di massa davanti alla fabbrica Pegatron, a Shanghai, dopo che i dirigenti della società di elettronica proprietà di Taiwan hanno ordinato loro di trasferirsi nella struttura produttiva di Kunshan, una città nella provincia cinese del Jiangsu. I lavoratori che hanno rifiutato il trasferimento sono stati licenziati, perdendo, oltre al lavoro, anche i bonus per un valore di più di 10.000 yuan.
Durante il presidio davanti alla fabbrica la dirigenza ha richiesto l'intervento della polizia sul posto e sono scoppiati gli scontri; infine i manager hanno accettato di rivedere la politica di trasferimento e di garantire i benefici promessi.
Algoritmo e lavoro. Scioperi e proteste contro i ritmi e gli stipendi di fame hanno portato alcune aziende a concessioni. E ora sta per intervenire lo Stato
Si alza presto ogni mattina e passa la giornata sulla sella di un motorino o di una bicicletta, trasportando uno zaino carico di ordini fumanti da consegnare casa per casa. Deve correre, sempre, anche sotto la pioggia, in costante apprensione di arrivare in ritardo. Una app gli dice dove andare e quanti minuti ha per raggiungere la destinazione. Gli ultimi mesi lo hanno visto scendere in piazza a protestare, assieme a migliaia di suoi colleghi, per le inadeguate condizioni contrattuali.
In Cina sono circa tre milioni i lavoratori impiegati nella consegna di pasti a domicilio che ogni giorno scorrazzano per le strade del paese, cercando di rispettare le tempistiche imposte da aziende come Meituan, Ele.me, Waimai, le tre più grandi del settore. Ma il continuo peggioramento delle condizioni di lavoro scatena proteste e mobilitazioni.
Il 4 settembre scorso un gruppo di driver di Ele.me, l'azienda che col motto "Make Everything (in) 30min" si è diffusa nel giro di 8 anni in 2000 città cinesi, ha manifestato per le strade di Pechino per la mancata corresponsione del salario.
Rispetto al 2014, l'anno appena concluso ha visto un'impennata di scioperi in Cina. Le proteste registrate da China Labour Bulletin sono salite infatti a 2.774 nel 2015, dalle 1.379 rilevate l'anno prima dalla stessa organizzazione non governativa.
Secondo la ong con sede a Hong Kong – oltre al rallentamento della seconda economia del Pianeta – la causa fondamentale delle proteste rimane "il rifiuto sistematico da parte degli imprenditori di rispettare i diritti elementari dei lavoratori, come quello di essere pagati puntualmente e di ricevere i benefit che gli spettano; e il fallimento delle amministrazioni locali di far rispettare le leggi sul lavoro".
Secondo l'ong China Labour Bulletin – di Hong Kong – gli scioperi e le proteste a livello nazionale sono quasi raddoppiate nei primi 11 mesi del 2015 a 2.354 da 1.207 nello stesso periodo del 2014. Il Ministero del Lavoro cinese dice che 1,56 milioni di casi di cause sul lavoro sono state accettate per mediazione nel 2014, rispetto agli 1,5 milioni nel 2013.
Nel silenzio generale, dunque, i lavoratori cinesi continuano quelle lotte che hanno caratterizzato gli anni scorsi, portando anche ad importanti risultati, sotto il punto di vista degli aumenti salariali e dei diritti sindacali.
1378, questo il numero degli scioperi in Cina nel 2014 secondo il China Labour Bulletin di Honk Kong. Quasi il doppio rispetto all’anno precedente. I nuovi dati raccolti evidenziano inoltre un’accelerazione della tendenza: nell’ultimo trimestre dell’anno i numeri sono triplicati rispetto allo stesso periodo del 2013.
I lavoratori cinesi scesi in sciopero - operai, camionisti, insegnanti, lavoratori edili, minatori, ecc. - rivendicano salari più alti, arretrati e pensioni. Attraverso l’utilizzo di smartphone e social network, le mobilitazioni si sono diffuse di fabbrica in fabbrica, espandendosi oltre la provincia industriale del Guangdong, da sempre epicentro delle proteste. Scioperi sono stati indetti infatti anche nelle ricche province di Jiangsu e Shandong, nonché nella Cina centrale nella più povera Henan.
Situazione in evoluzione a Hong Kong dove, trainato dagli studenti, è cominciato Occupy Central, il movimento che chiede elezioni dirette e a suffragio universale per il 2017. Da una parte, la società civile, dall'altra i poteri costituiti, fedeli a Pechino. Il movimento è pacifico ed estremamente composito.
Mentre scriviamo, gli studenti che stanno occupando l'area di Hong Kong dove si trovano gli uffici del governo e del consiglio legislativo stanno fronteggiando la polizia. Gli agenti li avevano circondati nel primo pomeriggio locale, chiudendo l'area e impedendo a chunque di accedervi, ma altri manifestanti e semplici cittadini solidali hanno a loro volta formato un ampio cerchio attorno agli agenti. Così, a cerchi concentrici, si va disegnando il movimento Occupy Central, nel cuore dell'ex colonia britannica.
Due fabbriche che impiegano circa 16 mila operai nella produzione display per telefoni cellulari sono entrate in sciopero negli ultimi giorni nel sud della Cina, riferisce oggi l'agenzia di stampa governativa Xinhua. Si tratta di una delle proteste operaie più massicce registrate finora nel 2014.
Lo sciopero, partito l'altro ieri a Dongguan, presso la fabbrica Masstop Liquid Crystal Display, si è esteso il giorno successivo alla Wintek (China) Technology, nella stessa metropoli industriale della provincia meridionale del Guangdong. Entrambi gli stabilimenti appartengono a sussidiarie della taiwanese Wintek che produce, tra gli altri, per Apple (che in queste ore sta lanciando il suo iPhone6).