Per la difesa della nostra vita, non del posto di lavoro né, tantomeno, del tessuto industriale
"Così i sindacati hanno piegato Confindustria", titolava il manifesto del 30 giugno 2021 sfidando il senso del ridicolo. I risultati di questa grande vittoria, ottenuta con nientepopodimeno che tre comizi di Cgil-Cisl-Uil a Torino, Firenze e Bari, non hanno tardato a farsi sentire con una serie di licenziamenti di massa alla Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto in Brianza, e alla Gkn di Campi Bisenzio a Firenze. Le chiusure di questi stabilimenti si sommano a quelle già in essere, come nel caso della Whirlpool a Napoli, di ex-Embraco a Riva di Chieri (To), e di altre che non fanno notizia sui giornali.
E' una presa in giro quella dei confederali. Hanno fatto passare come un passo in avanti un accordo con Confindustria, firmato anche dal presidente del Consiglio e dal ministro del Lavoro, che di fatto sblocca i licenziamenti e, al massimo, spinge i datori di lavoro ad esaurire gli ammortizzatori sociali prima di procedere alla risoluzione dei rapporti di lavoro. Tale "avviso comune", tra l'altro, è stato prontamente disatteso dalle aziende di cui sopra, che delle carte firmate se ne fregano altamente.
Di fronte a questa situazione c'è chi invoca un ritorno della mano pubblica nell'industria, chi vuole le nazionalizzazioni, chi una nuova politica industriale, e chi dice che l'unica strada è ritornare alla programmazione economica… di tipo fascio-keynesiano. Discorsi tutti interni alla logica borghese, tesi alla salvaguardia dello status quo, che non affrontano ciò che veramente conta, ovvero le condizioni di vita dei proletari. Purtroppo, si sentono pure dei delegati che invitano gli operai a difendere i macchinari con le unghie e con i denti, rivendicando un amore per la fabbrica che nemmeno la proprietà ha mai avuto; dicono che la finanza specula sulle aziende, i lavoratori invece avrebbero a cuore il futuro degli stabilimenti.
Ora, è il caso di ribadire che in regime di lavoro salariato gli operai vendono la propria forza-lavoro in cambio di un salario, e non certo perché amano andare a lavorare otto ore al giorno. Può accadere che di fronte alla minaccia di rimanere senza garanzie un lavoratore perda la testa mettendosi, del tutto irrazionalmente, a difendere il posto di lavoro. Ma, a mente fredda, sarebbe opportuno fare un bilancio delle esperienze passate e capire che una battaglia per tenere aperta la "propria" fabbrica è di retroguardia e, alla fine, fa solo il gioco di politici e sindacalisti che vogliono spegnere la lotta.
Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, a proposito di lavoro estraniato, Karl Marx scriveva:
"L'operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé, e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non lavora, e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena viene meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l'uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di sé stessi, di mortificazione."
Parole da tenere bene a mente, soprattutto quando si leggono comunicati nei quali si sostiene che la fabbrica è la casa degli operai, e questi possono farla produrre meglio di prima, quando c'era un capitalista.
Su Facebook il Collettivo Di Fabbrica dei lavoratori Gkn ha fatto sapere, a chi ha chiesto di fare donazioni alla cassa di resistenza operaia, che "il punto ora non è portare altre risorse qua. Il punto è che la lotta si deve allargare, lì dove vi trovate. I soldi metteteli negli scioperi, nelle macchine che dovrete organizzare per i cortei nazionali, nei volantini da distribuire ovunque voi siate."
L'appello ad allargare la lotta è giusto: lottando isolati, ognuno nel proprio posto di lavoro (quando c'è ancora), senza la possibilità di mettere in campo la forza e cioè l'unico linguaggio che i nostri avversari capiscono, siamo destinati alla sconfitta. La lotta unitaria necessita, però, di una rivendicazione unitaria, che coinvolga il maggior numero possibile di senza riserve, con o senza lavoro; e questa non può che essere la drastica riduzione della giornata lavorativa insieme al salario ai disoccupati.
In maniera più o meno contradditoria ci stanno arrivando gli stessi stati borghesi, con le proposte di settimana corta (vedi il caso islandese) e l'introduzione di varie forme di reddito di cittadinanza. Il sindacato dovrebbe incalzare la controparte su questi temi, chiedere di più, ma è troppo impegnato ad elemosinare tavoli delle trattative, a piagnucolare sulla Costituzione violata e sul "diritto al lavoro". Spetta perciò ai lavoratori adoperarsi per dare vita al proprio coordinamento di lotta, che ora come non mai non può essere per mestiere, per luoghi di lavoro o per tessera sindacale, ma territoriale, per semplice appartenenza ad una classe.