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Lavoratori GKNLa vertenza Gkn ha tenuto banco per tutta l'estate e ha rappresentato per molti un qualcosa di nuovo nell'asfittico panorama delle lotte operaie in Italia, punteggiato qui e là dai picchetti e dagli scioperi dei lavoratori della logistica.

L'annunciata chiusura il 9 luglio scorso della Gkn di Campi Bisenzio, di proprietà del fondo inglese Melrose, ha portato all'occupazione della fabbrica da parte degli operai, e alla realizzazione di un presidio permanente fuori dai cancelli dell'azienda. Immediatamente, è stata organizzata una serie di iniziative che sono sfociate nella manifestazione di piazza Santa Croce a Firenze del 19 luglio (con annesso sciopero generale convocato dai confederali al grido di "insorgiamo" ma anche di "difendiamo il lavoro"); nella manifestazione davanti alla fabbrica del 24 luglio; e nella mobilitazione indetta nella sera dell'11 agosto, giorno della "liberazione" del capoluogo toscano dal fascismo.

Si arriva così alla manifestazione del 19 settembre a Firenze, definita dal Collettivo di Fabbrica Gkn, la "marcia dei 40.000. Quella buona." La riuscita dell'appuntamento di piazza è frutto di un tour in alcune città italiane, che ha portato al coinvolgimento di centri sociali, sindacati di base e varie realtà politiche. Diversi settori sociali, toscani e non, si sono sentiti chiamati in causa dalla lotta proprio grazie all'apertura dimostrata dal Collettivo, che sui social ha scritto ai suoi sostenitori:

"Non venite in piazza PER i nostri problemi di lavoro. Venite in piazza CON i vostri problemi e che la nostra vertenza apra la via a un fiume in piena di rivendicazioni, pretese."

Il Collettivo di Fabbrica ha sempre sottolineato l'importanza di collegarsi con altre vertenze. Ha partecipato allo sciopero dei lavoratori Alitalia del 24 settembre (anch'essi alle prese con la richiesta di blocco dei licenziamenti), ed è andato a Napoli per supportare la vertenza degli operai Whirlpool, sottoposti a una procedura di licenziamento, con lo slogan: "avanti, uniti, insorgiamo!"

Tuttavia, sullo sfondo di questa spinta ad unire le lotte, non mancano proposte che esulano da specifici interessi di classe, ad esempio quella di un decreto-legge anti-delocalizzazioni con tanto di coinvolgimento di un "pool di giuslavoristi che ha risposto al nostro appello" e "ha preparato un testo che rispecchia gli 8 punti approvati dall'assemblea operaia". Inoltre, la manifesta convinzione di poter fare ripartire la fabbrica (senza padroni) meglio di prima non fa ben sperare, dato che abbraccia la vetusta logica produttivista, che è poi quella confederale della tutela del tessuto industriale nazionale e della richiesta di maggiori investimenti pubblici.

Anche l'area di opposizione in Cgil ripropone le solite ricette (difesa dei posti di lavoro, dei contratti nazionali, ecc.), e i più sinistri si attestano sulla lotta ai licenziamenti. Vince insomma l'omologazione politica e sindacale verso ciò che esiste, e sembrano passati secoli da quando gli operai scendevano in piazza organizzando manifestazioni contro la vendita forzata di sé stessi, ovvero contro il lavoro salariato.

E' evidente che i lavoratori non possono accettare passivamente i licenziamenti e hanno tutte le ragioni per mobilitarsi. Ma proprio per questo è necessario avere ben chiaro che la parola d'ordine della difesa del posto di lavoro è assurda e, in ultima analisi, dannosa. Dal punto di vista materiale, all'operaio è necessario non tanto mantenere un posto di lavoro, quanto portare a casa un salario decente a fine mese. Perciò dovremmo dire: lavoro o non lavoro vogliamo avere di che vivere, le compatibilità economiche sono problemi dei capitalisti e del loro stato, non nostri.

Tra l'altro, difendendo il "mio" posto di lavoro, il "mio" stabilimento, il "mio" territorio, si accetta implicitamente una prospettiva di tipo corporativo, omettendo il fatto che il posto che si vorrebbe salvaguardare è di proprietà di qualcun altro. E anche qualora la fabbrica diventasse di proprietà degli operai, in regime di economia di mercato l'autogestione della produzione di tipo cooperativo è autosfruttamento.

Certo, non bastano una parola d'ordine o una rivendicazione per cambiare la situazione. Si tratta, evidentemente, di cambiare paradigma, modello, visione delle cose. La realtà materiale (in primis lo sviluppo tecnologico) erode le basi su cui si erge l'ideologia lavorista proprio perché il lavoro, soprattutto nei paesi a vecchio capitalismo, è sempre più raro, e tale carenza porta alla crescita di una popolazione eccedente rispetto alle necessità di valorizzazione del Capitale. Proliferano di conseguenza il precariato, la disoccupazione e l'economia dei lavoretti (lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo).

La ruota della storia non torna indietro, è quindi ora di volgere lo sguardo verso il futuro, un futuro che marcia a passo spedito oltre il sistema del lavoro salariato. Il soporifero tran-tran sindacale lascia ormai il tempo che trova, e le vecchie categorie politiche sono appannaggio di isterici zombie. Lo stesso vale per la litigiosità e la concorrenza tra le sigle, soprattutto nel sindacalismo di base, che servono solo a giustificare l'esistenza di micro-burocrazie che prosperano sulla divisione dei lavoratori e la frammentazione delle lotte.

Nella prospettiva di una futura acutizzazione dello scontro di classe, la diffusione di indicazioni chiare sul cambiamento può fare la differenza, contribuendo a muovere masse di uomini verso l'abolizione dello stato di cose presente e non verso il suo puntellamento.